L’ESAME DI STATO TARGATO VALDITARA: LO SPIEGA HADI PARTOVI

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Cosa hanno a che fare le raccomandazioni di Valditara per l’ormai imminente esame di Stato – da concepire come un’innocua e rilassante chiacchierata senza contenuti – con le strampalate idee di un miliardario iraniano che anche recentemente ha proposto per l’Italia una scuola con meno latino e più intelligenza artificiale?


Hadi Partovi, ingegnere informatico iraniano, è l’ennesimo miliardario a cui qualche consulente ha raccomandato un abbigliamento casual e un repertorio di slogan adatti al genio incompreso che cova nell’intimo di tanti adolescenti. Soprattutto di quelli che, quando si richiede loro serietà, disciplina, impegno – o anche semplicemente una moderata attività cerebrale – riesumano dalla cantina qualche vecchio arnese usato in piazza dai loro pari di tre generazioni addietro. I soliti inni alla creatività che un manipolo di perfidi parrucconi vorrebbe soffocare nel “nozionismo”, ad esempio. O i mantra sull’umanità che si perderebbe correndo dietro alle fumisterie di una cultura libresca. Per non dire della modernità, che ineluttabilmente dichiara obsoleto tutto ciò che non è agile, immediato, comodo. Inclusivo, come si dice oggi.

Ecco, questo novello eroe sa parlare proprio a loro. Eroe, dico, perché Repubblica, che ne ha recentemente ospitato una lunga intervista, non per caso ne tratteggia il profilo con toni da epopea. Veniamo così a sapere che Partovi ha «imparato i primi codici da bambino a Tehran, mentre infuriava la guerra tra Iran e Iraq», prima di approdare finalmente al mondo libero, precisamente negli USA (il Paese che aveva gentilmente fornito a Iran e Iraq le armi per distruggersi a vicenda). Qui, dopo una fortunata carriera fra Microsoft e altri oligopolisti del Tech, fonda la benemerita no profit Code.org, «che spinge l’apprendimento dell’informatica tra i giovani di tutto il mondo». Infatti Partovi «porta sempre sulla testa un cappellino da baseball con la scritta “code“: “programma”», che non è solo il nome della sua creatura, ma un vero e proprio «invito universale».

Un invito, certo, a chi ancora può bersi la favola del self made man filantropo che dai tabulati dei propri profitti trae il diritto di dettare l’agenda al mondo. In ambiti di cui, peraltro, non sa più o meno nulla, come quello scolastico. «Un messaggio» scrive infatti l’agiografo di Repubblica «Partovi ora lo manda anche all’Italia: “Meno latino e più intelligenza artificiale nelle scuole”». Le ragioni? Quando l’intervistatore fa notare all’ingegnere che la scuola italiana dà spazio ad arte, letteratura e, appunto, “lingue morte”, «perché pensiamo che siano un patrimonio da cui attingere per la formazione di una persona», la risposta scivola facilmente: «Qualcosa di tutto questo è utile?». E poi, perché chi legge comprenda meglio: «La quantità di Pil globale che spendiamo in educazione è molto alta e a fronte di questo gli studenti si sentono sempre più distaccati da quello che imparano a scuola. Una delle cose più difficili per gli insegnanti è sentirsi domandare dagli studenti: perché impariamo il latino? Per loro è difficile rispondere. Soprattutto se lo studente viene da una famiglia a basso reddito che ha paura non trovi un impiego e lui sta imparando cose di cui a un datore di lavoro non interessa nulla».

Poco ci conforta che, appena più avanti, contraddicendosi clamorosamente, Partovi parli di studio creativo dell’arte o di abbinamento fra latino e tecnologia (in un’ottica che richiama Steve Jobs, altra icona immancabile): i goffi tentativi di correggere il tiro nel volgere di poche righe servono solo a confermare l’insostenibilità di questi vaneggiamenti e la confusione mentale di chi li partorisce. Un punto è però interessante: volendo stigmatizzare il nostro attuale modello d’istruzione, l’ingegnere e il suo intervistatore portano ad esempio particolarmente il latino. Perché? Quantomeno il giornalista dovrebbe sapere che in Italia la gloriosa lingua di Cesare è stata eliminata dai programmi della scuola media nel 1977, e che in tempi più recenti è stata drasticamente marginalizzata nei pochi indirizzi liceali in cui resisteva, compresi corsi sperimentali del classico (per non dire dei nuovi licei scientifici, dove talora non ne resta proprio traccia). Poiché oltretutto parliamo di istituti solitamente non presi d’assalto dalla gran massa della gioventù, davvero non si capisce come, dai ritagli orari di alcune nicchie, proprio il latino possa insidiare l’avanzata della nuova sottocultura tecnocratica. Perché non dire, ad esempio, che l’intelligenza artificiale dovrebbe invadere spazi ben più corposi come quelli dedicati alla matematica o all’italiano? E non si dica che queste ultime sono materie fondamentali mentre l’altra no, perché chi continua a coltivare questo luogo comune non capirà mai dove si vuole veramente andare a parare.

Diversi anni fa, l’Associazione TreeLLLe – pensatoio piuttosto influente nella cui orbita ruota una schiera di personalità più che trasversale (da Berlinguer a Valditara, per capirsi) – organizzò un convegno dedicato proprio agli spazi del latino nel nostro ordinamento scolastico. Inutile dire che i relatori – tutti rigorosamente estranei alle aule scolastiche – fecero a gara nel sostenere la necessità di ridimensionarli quanto più possibile, quegli spazi. Con un repertorio di ragioni che, spogliate delle sovrabbondanti sofisticherie dialettiche, si sarebbero potute ridurre esattamente alle formule smart di Partovi: disciplina antiquata, inutile, non adatta all’ipertecnologico correre dei tempi. Nessuno però rispose all’intelligente provocazione di Leopoldo Gamberale, unico fra i presenti a non unirsi completamente al coro: «Esiste una ragione incontrovertibile – si chiedeva il latinista – perché, nell’età dei calcolatori, debba essere obbligatorio lo studio della matematica in ogni ordine e tipo di scuola? La risposta, a voler essere onesti, non è diversa da quella che riguarda il latino. Spingiamoci più in là nel paradosso. Si capisce, certo, l’obbligatorietà dell’italiano: ma perché in ogni tipo di scuola superiore in Italia si deve studiare la Divina Commedia? Non mi pare si possa sostenere che, in assoluto, essa costituisce un testo necessario per ogni studente. Il ragionamento, proseguito coerentemente, porterebbe a concludere che può essere reso opzionale lo studio della Commedia di Dante, e perfino quello della matematica, una volta acquisite nozioni di aritmetica elementare».

La logica in effetti era stringente: può essere utile (nel senso voluto dai fautori dell’ottimismo della tecnica) impiegare anni di studio per svolgere operazioni che una qualunque applicazione a buon mercato può liquidare in pochi secondi e con altissima precisione? Certo, tutto ciò è paradossale e aberrante. Lo era agli occhi di Gamberale, il quale credo non si rendesse conto che il suo ragionamento, proposto per assurdo, indovinava invece il fatale esito, a lungo termine, dei discorsi dei suoi colleghi (e che anch’essi ne fossero consapevoli o meno poco importa). Tant’è che la risposta gli giunge ora, indirettamente, appunto dall’informatico col cappellino: «Tante delle cose che i ragazzi imparano a scuola – dice infatti Partovi – possono essere fatte dall’Intelligenza artificiale. Appena ChatGpt è uscita l’ho mostrata a mia figlia. Può spiegare che cos’è la fotosintesi, può scrivere un saggio sulla Seconda Guerra Mondiale, può scrivere una poesia o un racconto, può scrivere o correggere un codice. La prima domanda che mi ha fatto è stata: “Perché devo imparare queste cose se ChatGpt può farle per me?”. Ora, questo non vuol dire che non serve più la scuola, ma la scuola deve cambiare e insegnare come usare l’AI per fare cose». Dunque, ecco il programma: «Tutti devono imparare a leggere, scrivere, la matematica di base e le competenze digitali. Anche una conoscenza base della storia mondiale, ma di base. Dobbiamo cambiare l’educazione in modo da avere una quantità più piccola di informazioni» perché «le scuole devono evolvere e pensare come imparare con l’AI, come scrivere con l’AI, come programmare con l’AI». Insomma, nel volgere di pochi anni il paradosso è diventato un manifesto.

Il latino – con la sua presunta inutilità, propagandata a forza di usurati luoghi comuni – è quindi solo un facile pretesto. Il punto è un altro. E per capire quanto queste derive, lungi dall’esistere solo nelle farneticazioni di un miliardario fanatico, siano ormai penetrate nelle agende politiche dei nostri governi, basterà ascoltare le recenti dichiarazioni di Valditara sugli esami di maturità: «L’esame è un momento importante che non deve però essere affrontato in maniera traumatica» ha tenuto a precisare il ministro agli ispettori ministeriali. Certo ci si potrebbe chiedere come il tabù del “trauma” si combini ad un regime politico ed economico che ha eletto lo shock a filosofia di vita in ogni ambito, teorizzando apertamente (Monti docet) la crisi come via necessaria all’evoluzione. Ma forse il tabù nasce proprio da questa consapevolezza: dalla coscienza, cioè, che le crisi aiutano a crescere, il che è utile solo quando la parola “crescita” viene declinata sulle quotazioni borsistiche di una multinazionale (e indipendentemente da ciò che per conseguenza decresce). Non quando si tratta del normale e sano processo di maturazione dell’individuo, il quale, come insegna Partovi, deve sapere e saper fare solo ciò che il mercato del lavoro (ossia la multinazionale di cui sopra) gli chiede. Null’altro: «In ogni luogo di lavoro i manager stanno chiedendo ai dipendenti di capire come usare questi nuovi strumenti per aumentare la produttività, per rendere il lavoro migliore e più veloce. Ma nelle scuole dicono: usare l’AI è copiare! Quindi stanno dicendo agli studenti di non imparare la prima cosa che il mondo del lavoro chiede di imparare».

Non occorre maturità, in effetti, per imparare a usare strumenti peraltro generalmente piuttosto intuitivi. L’esecuzione di procedure standard non richiede che meccanica dell’obbedienza, fede nel mezzo che crea e giustifica i fini. Maturità è semmai gestione intelligente di conoscenze complesse, autonoma possibilità di comprensione del mondo (quello vero). Ma che importa, se il mondo del lavoro non lo richiede? Ed ecco infatti il naturale corollario con cui il ministro supporta le sue raccomandazioni: «l’orale non consisterà in una serie di interrogazioni sulle singole discipline, ma sarà centrato su un colloquio fra lo studente e la commissione, che toccherà i vari ambiti di studio, nel contesto di una comprensione globale di quanto è stato assimilato durante l’ultimo anno e degli interessi che lo studente ha mostrato durante il suo percorso».

Sono facce della stessa medaglia. La pedagogia anti-crisi (ossia l’adattamento didattico delle strategie manageriali per l’ottimizzazione della produttività) è intimamente connessa all’obsolescenza programmata delle conoscenze. Gli studenti infatti non devono imparare, bensì produrre. Autoprodursi, anzi, come tessere rimovibili e adattabili di un mosaico il cui disegno sono destinati a non poter mai neppure concepire. L’esame che, non dovendo essere traumatico, non necessita della verifica sui contenuti disciplinari, cioè fa a meno della propria sostanza per lasciare che la selezione dia spazio a un perenne “orientamento” (leggasi: una perenne minorità, coniugata immancabilmente al futuro, alla procrastinazione incessante di un’assunzione di responsabilità quale che sia) è il perfetto coronamento della scuola immaginata dai manager di Microsoft. «Dobbiamo cambiare l’educazione in modo da avere una quantità più piccola di informazioni e lasciare gli studenti usare la tecnologia per specializzarsi in ciò che è la loro passione» dice Partovi. Rileggete ora Valditara: «una comprensione globale di quanto è stato assimilato durante l’ultimo anno e degli interessi che lo studente ha mostrato». E poi ditemi se non notate un’inquietante consonanza che chiude il cerchio.

Gavino Piga

P.S.: Ringrazio, per la bella immagine di copertina, una splendida coppia di lettori di Giubbe Rosse conosciuta a Roma in occasione del primo convegno sulla scuola organizzato da ContiamoCi!

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