C’ERA UNA VOLTA LA TERRA: UNO SGUARDO SULLE NOSTRE RADICI, SUL PRESENTE E SUL FUTURO. INTERVISTA AI REGISTI ILARIA JOVINE E ROBERTO MARIOTTI

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C’è un cinema libero, indipendente, vitale che molti non conoscono. Ed è proprio per questo che qui vogliamo dargli spazio e voce. L’arte e il cinema soffrono oggi di un disancoraggio dalla realtà, di un infatuarsi di ideologie e astrazioni che provengono anche dall’aver reciso i legami con le proprie radici, con il passato che è linfa per comprendere il presente e guardare al futuro. Ne parliamo con i registi Ilaria Jovine e Roberto Mariotti.

C’è un cinema libero, indipendente, vitale che molti non conoscono. Ed è proprio per questo che qui vogliamo dargli spazio e voce. Perché oggi, a nostro avviso, è il tempo di alimentare un nuovo fermento culturale e artistico che allontani la cappa di nebbia a cui ci siamo abituati. Così abituati che non pensiamo più che oltre quel grigio monotono esistano le sfumature del cielo.

L’arte e il cinema soffrono oggi di un disancoraggio dalla realtà, di un infatuarsi di ideologie e astrazioni che provengono anche dall’aver reciso i legami con le proprie radici, con il passato che è linfa per comprendere il presente e guardare al futuro. Ne parliamo con i registi Ilaria Jovine e Roberto Mariotti. Il loro documentario C’era una volta la terra, ispirato agli scritti di Francesco Jovine, è stato recentemente proiettato il 22 marzo al Off di Piazza San Cosimato Trastevere e proseguirà il suo giro con altre proiezioni. C’è uno sguardo sull’uomo, sulla terra e sulla sua storia che dobbiamo recuperare. Uno sguardo che si fa ascolto, assimilazione, mentre noi siamo troppo abituati a corrompere ciò che vediamo con i nostri preconcetti. L’arte dovrebbe aiutarci a purificare lo sguardo e a farci conquistare una comprensione più profonda della realtà e della vita. Oggi, più che mai, in un mondo che vuole imprigionarci dentro false narrazioni, e i cui schemi si fanno ogni giorno più soffocanti e disumani, abbiamo bisogno di artisti liberi. E abbiamo bisogno di sostenerli e di sostenere questa visione dell’arte. Perché nessun cambiamento, nessuna rinascita può avvenire senza la spinta dell’arte.

Il vostro film parla di uomini e di terra. Quali sono i significati di questo termine, anche simbolici, che emergono dall’opera?

I: Abbiamo voluto declinare il termine “Terra” secondo varie accezioni: suolo agricolo da coltivare, territorio e ambiente da conoscere e preservare, patria cui si appartiene, da cui si emigra e a cui si arriva o si torna.

Questo per indagare, da vari punti di vista, il rapporto che vi instaura l’uomo, rapporto che è l’oggetto del film.

Durante la lavorazione del film, è stato subito meravigliosamente e sorprendentemente chiaro quanto un argomento così concreto e tangibile si presti a regalare suggestioni oniriche, poetiche, simboliche. E questo non solo perché abbiamo sempre avuto a fianco le parole e i toni di Francesco Jovine, autore rinomato per il suo tono fiabesco (riscontrabile, e secondo me ancora più apprezzabile, anche nei suoi scritti giornalistici); ma perché confrontandosi con una tema simile, è inevitabile arrivare all’universalità del nostro vivere ed esistere e sfociare quindi in una narrazione epica. In tal senso è nato anche il titolo, una citazione omaggio al respiro epico delle narrazioni western di Leoniana memoria.

Ho amato molto lavorare a questo film proprio per questa rivelazione che mi ha donato: quando stai nel concreto, parti da concreti dati di realtà, solo allora, forse, puoi ritrovarti nella sana, benefica, poetica astrazione. Un insegnamento che ritengo un dono per tempi come questi che viviamo in cui da subito mentalizziamo tutto e perdiamo il contatto con gli autentici dati di realtà.

Il film guarda al passato, in primis riprendendo alcuni scritti di Francesco Jovine che raccontavano la situazione nel sud nella prima metà del secolo scorso. Ma va ancora più indietro, con i racconti di suo padre emigrato nel Sud America. Ma il film, attraverso le immagini ci racconta l’oggi. Cosa sono le radici? E cosa è il tempo? Che immagine ci restituisce il film?

I: Sì, la sfida che ci siamo posti è stata proprio questa: un tornare alle radici storiche, culturali e antropologiche (nel mio caso, anche personali e familiari, andando a dialogare idealmente con le parole del fratello di mio nonno), ma portandocele dietro nell’oggi, nel presente. Un gioco di rimpalli temporali di cui volevamo verificare eventuali cortocircuiti: cosa è cambiato, cosa è rimasto, cosa si è perso, cosa si è acquistato. È fondamentale per me fare un certo tipo di resoconti, è verificare il nostro stato di salute come popolo, dunque un recupero del passato tutto focalizzato al presente e quindi al futuro. Come per le piante, è dallo stato di salute della parte radicale che evinci lo stato di salute di tutta la pianta e ne verifichi la sanità della crescita. Tornare quindi al nostro passato storico, alle tradizioni su cui come paese ci fondiamo, non è tanto un’operazione nostalgia, ma un vero e proprio back to the future.

Nel film si vedono diverse figure che in vario modo vivono la terra, se ne curano, la conoscono. C’è un legame uomo-terra che va recuperato, forse addirittura restaurato?

R: Durante la lavorazione del film, durata un anno e mezzo circa, ci siamo subito resi conto di essere in una regione a forte vocazione agricola. Ogni famiglia molisana ha ricevuto in eredità il suo “fazzoletto” di terra, con i suoi olivi, la sua vigna, il suo orto. Nonostante questo, la maggior parte dei molisani non è impiegata in agricoltura e abbandona la regione, contribuendo allo spopolamento che incombe su tutto il sud e la dorsale appenninica. È stato sorprendente per noi scoprire, per esempio, come ancora oggi ci sono giovani che piuttosto che occuparsi della terra ereditata dai nonni, preferiscano attendere l’arrivo di un posto statale, che forse non arriverà mai. Non invento nulla, semplicemente riporto la testimonianza che abbiamo raccolto durante la lavorazione del film, quando eravamo alla ricerca dei personaggi della nostra storia. Non voglio mitizzare un lavoro, quello dell’agricoltore, che è senza dubbio duro e spesso ingrato: un raccolto può andar male, a seconda dell’andamento climatico stagionale, oppure si è costretti a tenere i prezzi dei prodotti troppo bassi per ricavarci un profitto dignitoso. Ma è altrettanto vero che l’Italia ha una bella tradizione agricola, abbiamo un clima e una terra, da nord a sud, che ci regalano prodotti di prima qualità. Forse non dovremmo dare per scontate queste fortune. Dovremmo dargli il giusto valore e la giusta attenzione e quindi prenderci cura e rispettare la terra e chi la lavora.

 

Come è nata l’idea del film? Ci potete anche raccontare come si è sviluppato il lavoro prima, durante e dopo le riprese?

R: La produzione letteraria di Jovine, mi riferisco ai suoi romanzi e ai racconti, è quella certamente più conosciuta, basti pensare che la Rai, negli anni ’60, realizzò ben 2 sceneggiati tratti dai 2 romanzi più importanti di Jovine (“Terre del Sacramento” e “Signora Ava”). Per il nostro film ci siamo invece orientati verso gli scritti giornalistici, praticamente sconosciuti al pubblico. In fase di scrittura della sceneggiatura, Ilaria ha lavorato alla selezione degli articoli, scritti negli anni ’30 e ’40 del 1900, in cerca degli articoli che affrontavano l’argomento “terra”, sotto varie declinazioni. Le parti più significative hanno creato la base della struttura narrativa, sulla quale poi abbiamo cominciato ad immagine la parte visiva. Dopo aver scartato l’idea di usare materiale storico d’archivio, ci siamo persuasi che sarebbe stato molto più originale e utile girare nel Molise di oggi, per ricreare quel passato-presente che tanto insegna quando viene accostato. Il lavoro di ricerca dei personaggi che avrebbero raccontato il Molise contemporaneo è stato lungo e di una certa complessità. D’altra parte, né io né Ilaria avevamo la minima conoscenza della regione e soprattutto non avevamo contatti. L’unico personaggio che abbiamo conosciuto prima di mettere piede in Molise, è stato il professor Cirino, che attraverso la sua pagina social era (ed è) molto seguito per l’impegno civico verso la sua terra d’origine.

Nonostante sia scomparso da oltre 70 anni, Francesco Jovine è ancora molto amato dai suoi conterranei e il fatto che Ilaria fosse la pronipote ha certamente agevolato il nostro lavoro sul campo: le persone che incontravamo erano disponibili e aperte. L’accesso era garantito. E per chi fa cinema documentario, l’accesso alle fonti è fondamentale.

Il documentario ha un tono, se mi si consente il termine, “poetico”, e un ritmo che segue quello della terra. Potete dirci qualcosa sulle scelte artistiche adottate, e sul perché?

I: Come dicevo prima, il tono del film è stato fortemente determinato da quello della voce narrante che avevamo deciso di avere come guida, dunque dalle parole di Francesco Jovine. Deciso questo, non rimaneva che stare in ascolto, attitudine per me fondamentale nel documentario di creazione. L’ascolto della voce ideale di Jovine, parallelamente all’ascolto della realtà che siamo andati ad indagare e conoscere (in Molise, la sua terra) hanno dettato i ritmi, le transizioni, le metafore, le suggestioni, infine tutta la narrazione del film. Questo per essere, come autori, davvero al servizio della storia, semplici tramiti ed interpreti, intellettualmente onesti, e per dare al tutto un senso di unità, altrettanto fondamentale per permettere allo spettatore di entrare nella storia e non perdersi.

È l’ascolto profondo di quelle parole che ha dettato certe immagini in ripresa o certe transizioni anche nel montaggio, così come l’ascolto di quei territori, di quegli abitanti e delle loro storie quotidiane che ha suggerito la lentezza del ritmo o l’uso del silenzio o la scansione stagionale della struttura narrativa. Oltre questo, l’idea di far ripetere oggi a Francesco Jovine un ideale ritorno nella sua terra, come pretesto narrativo di fondo che apre e chiude il film, non poteva che dare a tutta la narrazione il sapore lirico di cui si diceva.

Anche il vostro ultimo lavoro, Telling my son’s land, in modo totalmente differente parla però di terra, di radici, di viaggio. Potete parlacene brevemente e sottolineare gli aspetti comuni con C’era una volta la terra?

I: Con Telling my son’s land siamo sicuramente su altri mood, altri temi e altri ritmi, ma ci sono aspetti che ritornano. La protagonista è la giornalista materana Nancy Porsia e la storia è quella del rapporto profondo che ha instaurato con la Libia, terra, stavolta straniera, conosciuta all’indomani dell’uccisione di Gheddafi nel 2011 e vissuta stabilmente per i successivi cinque anni di guerra civile e tormentata pacificazione (ahinoi, ancora non conclusa). Quello che qui abbiamo voluto indagare è il rapporto tra storia privata e storia con la S maiuscola. Nel caso di Nancy le due si sono fatalmente intrecciate e questo è ciò che personalmente mi ha fatto scattare l’idea. Al di là del comune elemento del viaggio, della comune professione giornalistica e del comune profondo legame instaurato con una terra (ma qui intesa solo come paese, nazione), credo che ciò che accomuna maggiormente i due film sia il rapporto con la realtà circostante che hanno i due protagonisti. Un rapporto immersivo, di vero ascolto, di fusione quasi, totale. Nel profondo, credo sia questo ciò che, come sceneggiatrice di entrambe le opere, ma in condivisione con Roberto, mi ha spinto veramente verso questo tipo di storie. È un aspetto che ho riscontrato in entrambi i personaggi e che mi risuona. È una qualità che sento mancare nei nostri giorni e va dunque perseguita, imparando da maestri di ieri e di oggi. È fondamentale non perdere di vista il dato di realtà, rimanere con i piedi ben piantati sulla terra, in ascolto. È fondamentale per non perdersi.

Si parla, già da tempo di crisi del cinema e del cinema italiano. E dopo questi ultimi anni il pubblico sembra avere ancor più abbandonato le sale. A nostro avviso questo è un ulteriore segnale che indica come il momento sia propizio per battere anche altre strade, per ripensare l’industria e il rapporto col pubblico. Il vostro è a tutti gli effetti un cinema indipendente, veramente indipendente. Le persone sono perlopiù digiune di come funzioni la macchina-cinema nel nostro paese. Volete raccontare cosa significa fare film così in Italia? Quali le difficoltà e quali le opportunità? Se ci fosse qualcosa da cambiare nel sistema attuale, cosa cambiereste?

R: Al di là delle difficoltà, più o meno oggettive, per chi decide di intraprendere una carriera nel nostro settore, che molto spesso procede per conoscenze, piuttosto che per le qualità dell’autore o del regista, c’è il tema dell’indipendenza del pensiero a cui io e Ilaria teniamo più di qualsiasi altra cosa: potersi permettere la libertà di produrre un’opera “con la schiena dritta”, vale a dire senza condizionamenti dettati dal conformismo imperante. Si potrebbe dire che un Paese civile e democratico dovrebbe, in primis, sostenere questo genere di opere, perché sono quelle che fanno progredire, che aiutano a sviluppare lo spirito critico e che in definitiva aiutano a crescere come individui. Sappiamo che il sostegno dello Stato non ci sarà mai per questo genere di opere. Il cinema, così come il giornalismo indipendente, è un problema per lo Stato. È considerato come una scheggia impazzita, del tutto fuori controllo. Lo Stato, invece, vuole una società iper-controllata e andrà sempre peggio da questo punto di vista. Dunque, la sola cosa che mi viene in mente per aiutare chi, come noi, fa cinema indipendente al 100%, è chiamare a raccolta tutti i cineasti che hanno una visione della realtà fuori dagli schemi per creare un’avanguardia artistica, come ce ne sono state in passato. Oggi è una necessità, come lo era il cinema neorealista nel ’43. Se siamo divisi, è più facile ignorarci, se siamo uniti e ci riconosciamo in un modo di fare cinema, diventa più difficile per il sistema fare finta che non esistiamo. Per inaugurare questa ipotetica unione si potrebbe cominciare, per esempio, con un film collettivo, che racconti gli ultimi 3 anni sciagurati della nostra storia e che lo faccia con uno sguardo alternativo alla narrazione ufficiale e una visione realmente critica, che contribuisca a far uscire l’Italia dall’incantesimo in cui è precipitata. Ritengo che questo potrebbe essere un buon inizio.

Per chiudere la nostra chiacchierata ci potete dire dove si possono vedere i vostri lavori e quali nuovi progetti avete in piedi?

R: C’era una volta la terra si può ancora trovare sulla piattaforma Chili e, in formato DVD, allegato ad una pubblicazione della Cosmo Iannone Editore che ha rieditato la raccolta di scritti giornalistici Viaggio nel Molise, allargandola agli articoli selezionati per il nostro film, con prefazione di Goffredo Fofi e uno scritto di Mario Sesti. Poi naturalmente, se pur a fatica, proseguiamo con le proiezioni dal vivo, con la nostra presenza, come ad esempio il 20 e 21 aprile prossimi ad Agnone e Guardialfiera, in provincia di Campobasso.

L’ultimo nostro documentario, Telling my son’s land, che continua a girare tra Festival e sale cinematografiche, attualmente è sulla piattaforma Zalab view, in attesa di atterrare anche su altre piattaforme.

Il nostro prossimo film, I Wanna Live!, ora in fase di sviluppo, affronta il tema dell’autodeterminazione dei malati di cancro, attraverso l’esperienza di un’altra protagonista femminile, Alessandra Capone, che dopo 10 anni di malattia e di protocolli terapeutici, diventata metastatica con un fegato danneggiato al 95% e data da tutti i medici per spacciata, non si arrende e va fino a Francoforte, in un ospedale pubblico dove un medico è disposto a curarla. Ma per pagarsi la cura apre un crowdfunding su una nota piattaforma digitale, trasformandosi in un’influencer del cancro. Si parla di autodeterminazione, del rapporto medico-paziente, dell’approccio olistico della medicina, di integrazione delle terapie oncologiche, fondamentali per sostenere il fisico fortemente indebolito da chemio e radioterapie, ma anche di sistema sanitario da riformare e ricostituire.

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