Sono le 16.00 ore italiane del 13 marzo e a mezz’ora dall’apertura dei mercati d’oltreoceano si verifica ciò che molti temevano: la seconda banca statunitense di medie dimensioni perde più del 50% del suo valore nel giro di poche ore. Dopo la Silicon Valley Bank, crollata in borsa lo scorso 10 marzo, capitola anche la First Republic, che nella mattinata newyorkese perde il 76% del suo valore nominale. Nella medesima giornata, anche la Signature Bank, altra banca regionale mid-sized, fallisce dopo che alcuni clienti, nervosi per la generale situazione delle cose, ritirano in massa depositi per più di US$ 10 miliardi.


Ma di chi parliamo davvero quando citiamo i timori di “molti”?

Per comprendere la situazione bastano davvero due istantanee: la prima è rappresentata da un articolo pubblicato dal Wall Street Journal in tempi non sospetti, sette anni fa, in cui si solleva la questione etica (con riferimento specifico alla First Republic) dei destinatari dei prestiti erogati dalle banche statunitensi. Gli autori dell’articolo puntualizzano che la First Republic, che già all’epoca aveva solo clienti dalle tasche molto profonde, stava semplicemente cercando di concentrarsi su una particolare fetta del mercato, proprio come fanno i grandi brand del lusso.
Il problema principale, secondo l’articolo, e in anticipo sulle tematiche woke che ci tormentano da qualche anno, non sarebbe questo, bensì la scarsa presenza di clienti neri o ispanici.

La seconda istantanea è uno dei tanti sondaggi sull’economia reale americana, condotto dal Census Bureau, in cui emerge che circa il 40% degli statunitensi (90 milioni di persone circa) non riuscirebbe a pagare l’affitto, il mutuo, le bollette o anche solo la spesa per più di un mese, nel caso dovesse perdere il lavoro.
Sondaggi di questo genere inondano le testate giornalistiche americane da almeno dieci anni e sono puntualmente ripresi dai siti di consulenza finanziaria online, che, dietro lauto compenso naturalmente (“è il capitalismo, baby”), promettono ai potenziali clienti mirabolanti stratagemmi per poter mettere da parte due spiccioli.
Da ciò deriva che 90 milioni di americani non hanno risparmi, né dentro al portafoglio, né tantomeno nel proprio conto in banca. Neanche un dollaro.

90 milioni di cristiani nel Paese più ricco al mondo vive paycheck to paycheck.

Ora, la FED, dopo il crollo della SVB, ha annunciato un bailout di dimensioni bibliche per salvare tutti i “depositi non garantiti” di tale banca. Senza stare a dare troppe spiegazioni (basta aprire un qualsiasi articolo del Wall Street Journal o del Financial Times per capire il meccanismo della FDIC), si tratta di depositi da 250.000 US$ o più.
Sommando questo dato a quello precedente, ovvero che 90 milioni di americani presumibilmente non hanno neanche un dollaro in banca, e aggiungendo che la Silicon Valley Bank, così come la First Republic e la Signature, hanno una clientela esclusiva che si può permettere di investire cifre che molti non vedono nemmeno dopo dieci anni di lavoro, ne deduco che quando si parla del timore di “molti”, in realtà si parli del timore dei soliti. Di quelli che contano.

Si parla in realtà del timore del Potere, che ancora una volta, come nel 2008 oltreoceano, e come dal 2011 in poi in Europa, chiede allo Stato (lo stesso che cerca di demolire da quattro decenni a questa parte) di salvarlo.

Negli Stati Uniti il discorso prende anche una piega tragicomica (la classica situazione in cui non saper se ridere o piangere), in quanto oltre ad essere un Paese senza alcuna sicurezza sociale (nessuna sanità universale, nessuna sicurezza salariale ecc.), si fomenta da anni una forma di capitalismo particolarmente vomitevole, in cui comprare un paio di scarpe a rate senza però avere un tetto sopra la testa è diventato la normalità, così come all’altro estremo lo è diventato anche gonfiare nominalmente il valore di aziende o istituti creditizi attraverso la finanza.

In un sistema sano, lo Stato non dovrebbe permettere che il valore nominale delle azioni di una qualsiasi banca quotata in borsa superasse di molto il valore effettivo dei depositi dei correntisti, che fungono in tutto e per tutto da garanzia.
Difatti, molti clienti della Silicon Valley Bank non sapevano nemmeno che la banca prestava soldi per di più a start-up del settore tech, che notoriamente hanno una probabilità molto alta di non poter ripagare il prestito; così come molti di quelli della Signature non sapevano che la banca aveva investito più del 30% dei depositi in vari titoli legati alle criptovalute. E, se lo sapevano, erano ben felici di prendersi i rischi, come fa d’altronde chi i soldi li punta sui cavalli o sulle scommesse sportive.

Negli Stati Uniti questo comportamento non solo non è stato regolato (nonostante ciò che successe nel 2008 e in quelle che paiono essere mille altre istanze), ma è stato addirittura incentivato, sdoganando la speculazione coatta, che ha portato una sperequazione incolmabile tra valore nominale ed effettivo. Ciò gonfia artificialmente il settore finanziario, che traina il PIL del Paese nordamericano da quaranta anni o più, quando fu deciso di smontare gran parte del settore industriale che aveva dato da mangiare per decenni a milioni di famiglie.
Potenzialmente, moltissime altre banche americane potrebbero essere effettivamente “scoperte” se i clienti decidessero di ritirare i propri depositi (che fungono da garanzia per il valore in borsa delle azioni), ed è proprio ciò che “molti” temono. La fiducia nel settore finanziario e bancario americano sta, giustamente, precipitando proporzionalmente al valore delle azioni di molte di queste banche, gestite da squali che hanno dimenticato o semplicemente a cui non interessa quale dovrebbe essere la funzione di una banca: prestare soldi a famiglie e imprese che non ne dispongono abbastanza, purché i loro progetti rappresentino un debito sostenibile.


Tutto ciò è naturalmente possibile anche grazie alla stampa: per riportare un solo esempio delle assurdità che il Potere finanziario cerca di far trangugiare a noi semplici correntisti, attraverso quello mediatico, basta andare a riprendere ciò che scriveva Patrick Jenkins (Deputy Editor del Financial Times) nel vicinissimo 2016. Secondo l’analista britannico, una delle massime autorità globali in temi finanziari, era necessario sollevare la questione dell’utilità dei depositi garantiti, in quanto i pericoli che li avevano resi necessari in precedenza erano stati completamente neutralizzati, ed eliminandoli si sarebbe creata una sana competizione al ribasso tra banche per accaparrarsi i clienti.
Lo stesso analista oggi valuta la possibilità che il capitalismo americano sia arrivato al capolinea.

Leggo in questi giorni, mio malgrado, di una miriade di persone comuni preoccupate perché arriverà una nuova crisi finanziaria che ci ridurrà in miseria e a pagare sarà come sempre il popolo. “La povera gente”. Che si deve noi sperare, anzi, che si risolva tutto per il meglio per poter decidere un futuro migliore, da costruire dal basso, dopo aver scampato questo pericolo.

Dunque, innanzitutto, fino ad adesso che cosa stava accadendo, esattamente? Non ha, per caso, pagato “la povera gente” il prezzo del quantitative easing fomentato a destra e a manca sia in Europa che altrove, osannato come salvatore dell’economia, ma che ha, invece, effettivamente spostato capitali enormi dalle mani dello Stato (che, ricordiamo, viene finanziato dai tributi soprattutto della povera gente, visto che il Potere trova il modo di esimersi da ciò abbastanza agevolmente) in quelle delle banche e altri istituti finanziari?
Non ha pagato “la povera gente” quando queste banche hanno investito in titoli o operazioni finanziarie tenute assieme precariamente? Solo qualche mese fa, dopo il caso FTX, sono fallite altrettante banche. Caso eclatante quello della Silvergate Bank, legata a doppio nodo alla Signature che, non a caso, è fallita qualche mese dopo.
Non ha, per caso, pagato “la povera gente” gli errori (alcuni, molti, forse tutti deliberati) che la grande finanza ha compiuto negli altri crash borsistici meno noti (quelli del 1987, 1992, 1993, 1997)?

Perché non dovrei esultare (io, rappresentante della povera gente) se, malauguratamente, la FED e la BCE, che hanno fino ad adesso alzato i tassi di interesse per lucrare sui mutui a tasso variabile della povera gente e sopprimere criminalmente la domanda, per qualsivoglia motivo non ce la facessero a riabbassarli, come hanno promesso e come si stanno già adoperando a fare ora che il Potere ne ha bisogno. Forse questo servirebbe ad aprire gli occhi di molta povera gente che gioca a dama non sapendo che il mondo attorno a loro gioca a scacchi?

Io, che non ho neanche un dollaro sul conto corrente, e che vivo paycheck to paycheck, non riscontrerei alcun cambiamento radicale nella mia vita, ma sarebbe un duro colpo per il Potere, che forse perderebbe qualche membro dell’equipaggio. Forse perderebbe l’appoggio popolare che tutt’ora crede al Sistema. Forse no, ma sarebbe almeno abbastanza per coltivare qualche sano dubbio che fatica ancora ad arrivare, quindici anni dopo il disastro che fu il 2008, e dopo gli ultimi dieci anni di deflazione forzata nella zona euro.

Nel 1929 bastarono qualche testa di rapa tra le fila del Potere e molta perseveranza dall’altra parte per regalare alla povera gente sessant’anni di keynesismo.

La speranza è che oggi, in un mondo tremendamente più complesso, siano i loro stessi sacerdoti ad aver mal calcolato le proprie mosse, permettendo la rinascita di un nuovo ordine, che non potrebbe mai emergere senza i botti di un grande tracollo.

Condividi!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *