GLI OSCAR E NOI

2

La Notte degli Oscar è un appuntamento sempre molto atteso anche da questa parte dell’Oceano. Con giorni, settimane di anticipo se ne incomincia a parlare, nel bene e nel male. In fondo, a voler essere freddamente schietti, è la serata in cui l’Academy si premia, si celebra. Ma fin dove arriva l’influenza dello stile hollywoodiano sulle nostre vite?

La Notte degli Oscar è un appuntamento sempre molto atteso anche da questa parte dell’Oceano. Con giorni, settimane di anticipo se ne incomincia a parlare, nel bene e nel male. In fondo, a voler essere freddamente schietti, è la serata in cui l’Academy – nome esteso: Academy of Motion Picture Arts and Sciences, ovvero un’organizzazione onoraria delle professionalità che si sono distinte nell’industria cinematografica – si premia, si celebra. Nulla di scandaloso, potremmo dire, se rimanesse affar loro e di pochi altri. Eppure, da sempre, i premi assegnati hanno avuto per tutto il mondo un’importanza enorme: per molti l’importanza massima nel mondo della settima arte. Vincere una di quelle statuette dorate può cambiare la direzione di una carriera, anche in termini economici. E questo vale anche per i registi che ricevono il premio per il miglior film straniero. Dall’istante successivo in cui alzano la statuetta, produrre un film sarà per loro incredibilmente più in discesa. E il pubblico, in massima parte, avrà nei loro confronti uno sguardo di “subconscia reverenza”.

Tuttavia negli ultimi anni, specialmente in questo abbrivio di Terzo Millennio, qualcosa è mutato, perché in molti è mutato lo sguardo verso gli Stati Uniti, verso ciò che essi simboleggiano politicamente nella società attuale. Ci si è accorti di come Hollywood e, più in generale, il cinema a stelle e strisce, fosse l’immagine e la voce di tutte le ideologie più infide e deteriori di questo ultimo scorcio di storia. E i film erano e sono la perfetta incarnazione di quel mondo luccicante e sovvertito che è l’intera industria del cinema statunitense. Ma, a dire il vero, quella degli altri paesi non è poi così diversa.

Egemonismo politico e militare, ideologia di genere ed etnica, e altro ancora sono certamente le etichette più in vista dell’ambiente cinematografico americano. Ma arrestarsi a questo sarebbe una grave leggerezza che denota poca profondità di sguardo. Potremmo soffermarci su alcuni titoli che hanno avuto i riconoscimenti in quest’ultima edizione. Ad iniziare da Everything Everywhere All at Once, film che esplora la tematica del multiverso, vincitore di ben 7 statuette. Ke Huy Quan, ricevendo il premio come Miglior attore non protagonista proprio per questo film, ha detto: «Il mio viaggio è iniziato su una barca. Ho passato un anno in un campo profughi. E non so come, sono finito qui sul palco più importante di Hollywood. Dicono che le storie così accadono solo nei film, non riesco a credere che stia accadendo a me. Questo, questo è il sogno americano!». Applausi e urla di eccitazione da tutta la sala.

Per arrivare al premio come Miglior Documentario, andato – vi era forse qualche dubbio? – a Navalny, storia del “dissidente” russo omonimo, già vincitore del premio del pubblico al Sundance Film Festival. La moglie Julia, presente sul palco ha detto queste poche parole: «Mio marito è in prigione per aver detto la verità. Mio marito è in prigione solo per aver difeso la democrazia. Alexei (Navalny, ndr), sogno il giorno in cui tu sarai libero. In cui la nostra nazione sarà libera».

Ma questo discorso non aggiungerebbe nulla o quasi a quanto già molti sanno. Vogliamo invece mostrare cosa rappresentano il cinema e il modello di società americani giungendo a tutte le implicazioni, anche le più sottili, a cui essi danno forma.

Da sempre, nella visione statunitense, il cinema è essenzialmente “narrazione per immagini”. L’idea di scrittura deve pertanto evidenziare l’azione: ciò che accade scena dopo scena. Quello che vediamo sullo schermo deve immediatamente avere per lo spettatore un chiaro e logico significato e ogni scena deve far avanzare l’intreccio: se non lo fa, vuol dire che inutile. Caposaldo è la struttura in tre atti, con ulteriori rigidi passaggi all’interno di ciascuna sezione. La fotografia deve generare uno stacco con la realtà, condurre in un’atmosfera da sogno: alcuni lo definiscono un cinematic look. Questo era un dogma quasi assoluto almeno fino al periodo della cosiddetta New Hollywood, fra gli anni ’60 e ’70, che ha invece sondato le possibilità di una fotografia più realista, ripresa in questo ultimo ventennio da un certo cinema indipendente. La musica e gli effetti sonori non creano significato, non aprono all’indicibile, ma sono sottolineatura emotiva, a volte enfatica, di quanto già espresso dalle immagini e dai dialoghi. Rarissimi i casi di utilizzo, “espressionista”, ci si passi il termine, della colonna sonora, o addirittura di film che ne sono privi. Forse non hanno mai sentito cosa ne pensava, ad esempio della musica nel cinema, un maestro come Robert Bresson.

Del resto, loro definiscono l’industria cinematografica, entertainment, un qualcosa che deve “piacere” senza domandare sforzo. Aaron Sorkin, uno dei più famosi sceneggiatori, e ora anche regista, di Hollywood insegna che bisogna afferrare l’attenzione del pubblico già nei primissimi minuti di una pellicola, perché, dato il minore prezzo del biglietto rispetto ad un’opera teatrale, colto dalla noia, lo spettatore potrebbe anche decidere di alzarsi e lasciare la sala. E se pensate che queste “dottrine” siano confinate nelle aule delle scuole di cinema americane, vi sbagliate di grosso. Tutto questo è il trionfo dell’immanenza, della “grammatica cinematografica” codificata quasi da farne una gabbia da cui è vietato uscire. È il trionfo della semplice logica narrativa, del senso immediato, della totale chiusura ad una dimensione “misterica” “spirituale” del cinema in quanto tale, senza volerci riferire al contenuto esplicito di certe opere. E poi Hollywood è il regno della grandezza, delle Major, dei colossal, della fama, degli attori che divengono più che semplici esseri umani: divengono star. Basterebbe fermarsi anche a questo, per osservare come noi siamo tutti diventati, in fondo “americani”, anche quando diciamo di rifiutarne le ideologie. Ma è importante fare qualche incursione sul modello sociale di quella nazione, per evidenziarne la portata simbolica.

Il liberalismo statunitense, quello dell’american dream, è di matrice calvinista. Vaporizzata la visione metapolitica insita nel cattolicesimo che dai profeti biblici, passando per Platone, poi Dante, arriva sino ai maestri della Tradizione più recenti, in cui è fondamentale la dimensione collettiva, la responsabilità collettiva – da qui l’impegno per ordinare la Civitas – nell’ottica calvinista resta solo l’individuo. Ecco che allora l’impegno nel “riuscire”, nel ritagliarsi il proprio spazio, diventa la vera ragione di essere di ogni americano. E il successo è anche inteso come segno della benevolenza di Dio. Se non si è formalmente credenti, questo “mito” agisce comunque ad un livello subconscio. E questo è possibile perché il mondo – leggasi la loro società umana – è essenzialmente buona. Non per nulla loro sentono di avere una “missione” ed esportano democrazia in ogni angolo della terra. Se questa società è buona, ecco che allora, i risultati, i riconoscimenti che in essa ottengo hanno per conseguenza un valore automaticamente positivo. E se l’aspetto spirituale si riduce ad un fatto morale e intimistico, ecco che la ragione viene incoronata come unica via per conoscere la realtà; ragione che si appoggia poi sulla scienza. Ma la scienza diviene presto scientismo e si lascia anche corrompere dalle sirene del denaro e delle ideologie.

Ci basta elencare queste poche caratteristiche per descrivere come il “modello americano” sia penetrato fin nelle fessure della nostra quotidianità. Se dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, gli Stati Uniti hanno dominato in questa parte di mondo dal punto di vista economico, politico e militare, lo hanno fatto anche dal punto di vista dell’arte, della cultura, delle abitudini di vita. Simbolicamente, possiamo dire che hanno dato forma all’era contemporanea.

Come non riconoscere che noi oggi abbiamo tutti uno sguardo incapace di andare oltre l’evidenza materiale, ostile al Mistero? E se qualcosa, non solo un film, chiede a noi un particolare sforzo, una disponibilità a lasciare le sponde del conosciuto, difficilmente gli prestiamo l’attenzione che meriterebbe. Deve essere sì intelligente, profondo, ma allo stesso tempo deve solleticare ben bene i sensi esteriori. Se un film cammina ad un ritmo “lento”, se in esso i dialoghi non sono la trasposizione del quotidiano, se le musiche e il sonoro non sottolineano, ma spostano l’attenzione, dilatano il senso di una scena, se il tema non è smaccatamente esplicito, molto spesso non siamo nemmeno in grado di seguirlo, figuriamoci di apprezzarlo. E così facciamo per le cose della vita. Del resto questo è il tempo dell’informazione, del messaggio chiaro, diretto, immediato che non chiede di essere meditato. Letta una notizia, si passa alla successiva.

L’America è la terra dove tutto è grande: anche il cinema. Però, non abbiamo anche noi fatto idolo di ciò che ha visibilità, che ha successo – anche se il successo rimanesse circoscritto alla nostra conventicola? Il successo, la visibilità, lo sguardo dell’immanenza, l’assenza o quasi di poesia, di capacità introspettiva sono tutti precipitati del Regno della Quantità. Noi adoriamo i numeri, le classifiche, ma non ci siamo resi conto che così restiamo piegati sulla materia e abbiamo perduto tragicamente la capacità di riconoscere la Qualità che descrive l’anima profonda di una cosa, di un’opera, di una persona.

Guardiamo la terra. Quando si coltiva, prima si prepara il suolo, poi si sotterra il seme e lo si irriga. E si continua a curare quel piccolo seme in attesa che spunti il primo germoglio. Ma anche quando quest’ultimo fa capolino dal terreno, non siamo ancora certi che la pianta crescerà forte e robusta e darà frutti succosi. Magari non saremo nemmeno noi a gustarli quei frutti. Ma tutto questo non ci ha impedito di mettere il seme. In fondo noi non abbiamo più questo spirito. Vorremo subito vedere un orto rigonfio di frutti già maturi. Vogliamo vedere il risultato: ecco l’immediatezza, l’immanenza! Abbiamo perduto prima di tutto due cose: la speranza, quella vera, e la certezza che il bene va fatto indipendentemente da quale raccolto verrà. Il seme va piantato, perché è l’azione in sé che ha valore.

Molti criticano ferocemente la politica americana, ma se ad esempio un figlio vincesse la borsa di studio per un master negli Stati Uniti non ne sarebbero orgogliosi? Forse molti riconoscono la propaganda di Hollywood e quella ormai di quasi tutto il cinema contemporaneo, ma se un regista riceve molti premi difficilmente direbbero che la sua arte non vale nulla rispetto magari ad un altro autore che viene snobbato dalle principali kermesse. Dovremmo essere più onesti: siamo diventati un poco alla volta monadi che si ostacolano l’uno con l’altro. Nel più perfetto modello calvinista. Abbiamo perduto il senso della collettività. Farcela o meno dipende solo da noi e non sentiamo più il dovere di contribuire alla edificazione di una Civitas più giusta e ordinata. Non sentiamo più che ogni nostra azione ha effetti su tutto il corpo sociale e non riguarda solo chi la compie. Cerchiamo il successo mondano – a volte ci accontentiamo di una sicura posizione, ma per noi è già abbastanza – e se qualcuno invece incorre in fallimenti, li giudichiamo come sua responsabilità. In fondo, dimostriamo anche se non ne siamo consapevoli, di avere una istintiva fiducia in questa società. Se così non fosse, davanti al successo, ai riconoscimenti, all’ottenimento di titoli dovremmo invece per prima cosa avanzare un sospetto. Poiché se questo mondo è intrinsecamente pervertito, allora ciascun gesto di benevolenza verso un suo “abitante”, varrebbe come conferma di essersi ben integrato, di aver seguito la strada prefissata.

In verità, tutte le nostre abitudini e convenzioni sociali hanno il medesimo padre. Per quanto folle e idealista possa sembrare, o si rifiuta per intero lo spirito di questo mondo, o le critiche a questa o quella parte, a questa o quella ideologia lasciano il tempo che trovano. Il pensiero particellare è un’altra caratteristica di noi moderni. Non sperimentiamo più il cosmo come un Tutto unitario in cui niente è abbandonato al caso. Un Tutto dove dalle manifestazioni superficiali dobbiamo risalire ai Princìpi che le hanno determinate, o alle volte fare il percorso inverso. E così pensiamo di metterci a posto la coscienza scegliendo ciò che ci appare incorrotto, ma che in realtà non lo è. Anche gli Oscar, quindi, ci raccontano quello che siamo diventati, quello che non siamo più. Ma specchiarci ci deve donare la capacità di dilatare lo sguardo, di cambiare rotta, di costruire una vita diversa. Lo possiamo fare. Lo dobbiamo fare. Ad iniziare da ora.

Condividi!

2 thoughts on “GLI OSCAR E NOI

  1. È un circolo, si conoscono, si premiano, e noi a ciucciare questi eventi inutili. Ma abbiamo imparato anche noi, abbiamo premiato con il microfono, Mimun, che ci ha riempito di balle per 2 anni, senza mai alzare il livello della cultura,stregoni strapagati, politici ignoranti, eppure il circolo l’ha premiato. Mimun una garanzia di rotoballe.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *