SANREMO SÌ, SANREMO NO. LO SPECCHIO DEL DECOUPLING SOCIALE DELL’ITALIA

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Il modo in cui gli italiani si dividono oggi di fronte a Sanremo è uno dei tanti esempi del decoupling sociale che stiamo vivendo da anni. Il riflesso di una spaccatura sempre più profonda tra due Italie che ormai hanno smesso di comunicare tra loro, se non attraverso il reciproco disprezzo. Ed è anche, ahimè, la conferma di come l’Italia degli esclusi sia ancora lontana dall’avere una coscienza di sé.

Fonte: ANSA

Una metà degli italiani guarda Sanremo oggi essenzialmente perché si riconosce nei valori culturali e ideologici che il festival propone. L’altra metà detesta quei valori ideologici e culturali. Eppure, anziché ignorare Sanremo, lo guarda. E, se anche non lo guarda o vi assiste solo di striscio, sembra comunque incapace di non parlarne. Anziché cercare modelli alternativi, aggredisce quel modello. Lo deride, lo sbeffeggia, lo schernisce, illudendosi che questo basti a produrre un effetto apotropaico e ad annullarne gli effetti sul piano sociale.

Questa metà di italiani si sente giustamente esclusa dal modello Sanremo. Non se ne sente rappresentata, e infatti non lo è. Il festival è ormai da anni un’autocelebrazione di quella minoranza dominante sul piano politico, economico, giudiziario, mediatico e, non ultimo, culturale che si è ormai soliti definire con l’etichetta dispregiativa di ZTL. Un evento completamente autoreferenziale, che la minoranza dominante ha scelto da tempo come le proprie Panatenee per celebrare ogni anno se stessa. Ma, anziché distaccarsene attraverso il disinteresse, l’indifferenza o, meglio ancora, impegnandosi a costruire un modello migliore, la metà esclusa degli italiani ripropone sui social le stesse icone di quel modello, solo in chiave dispregiativa. Crea meme satirici, parodie, provocazioni, a volte argute, altre volte volgari. Ognuno reagisce con le armi di cui dispone: qualcuno con la genialità e la creatività, altri con lo scherno, altri ancora con l’invettiva. Ma nessuno, direttamente o indirettamente, sembra essere consapevole che, così facendo, non solo non scalfisce la potenza di quel modello, ma addirittura lo conferma nella sua validità. A nessuno di loro viene in mente che basterebbe non parlarne per infliggere al modello Sanremo un colpo durissimo, non fosse altro perché la potenza virale dei social finisce per amplificare a dismisura anche ciò che si vorrebbe denigrare per il semplice fatto che se ne parla. Insomma, a pochi sembra venire il sospetto che, commentando le prevedibili banalità di Benigni, il vestito di Chiara Ferragni, il monologo della Egonu, non si fa altro che aumentare la loro visibilità.

La questione può sembrare banale, in realtà non lo è affatto. Il modo in cui gli italiani si dividono oggi di fronte a Sanremo è uno dei tanti esempi del decoupling sociale che stiamo vivendo da anni. Lo specchio di una spaccatura sempre più profonda tra due Italie che ormai hanno smesso di comunicare tra loro, se non attraverso il reciproco disprezzo. Ed è anche, ahimè, la conferma di come l’Italia degli esclusi sia ancora lontana dall’avere una coscienza di sé.

L’OGGI. DUE ITALIE DIVISE

La prima Italia sta sopra. È minoritaria, ma autosufficiente. Occupa interamente gli organi istituzionali, gli enti regolatori, le redazioni delle principali testate giornalistiche, il mondo accademico e dell’istruzione, le case editrici, le case discografiche. Attraverso le sue ramificazioni nella politica è in grado di attingere a finanziamenti pubblici ed europei e di distribuirli in modo mirato e selettivo nel cinema, nel mondo culturale, nella stessa scuola, nella ricerca scientifica accademica e medico-sanitaria e in generale nella produzione del sapere, con l’obiettivo di far emergere solo soggetti preventivamente allineati, che andranno a consolidare il suo predominio e a confermare i suoi valori fondanti. Qualunque voce critica, dissenziente, alternativa, non allineata è vista come pericolosa e rigorosamente esclusa fin dall’inizio. Già pensare è visto con sospetto. Pensare con la propria testa, addirittura, è considerato alla stregua del terrorismo.

La seconda sta sotto. Benché largamente maggioritaria sul piano numerico, è ancora disorganizzata e lontana dall’essere autosufficiente. Per cominciare, non ha un’ideologia unificante né, tanto meno, un orizzonte politico preciso. È unita solamente dal rifiuto dell’ideologia e dei valori dell’altra metà, ma ancora non dispone di un vero e proprio modello alternativo e non si pone neppure il problema di crearlo. Conseguentemente, non ha ancora un leader e nemmeno un referente politico. Ad ogni elezione è costretta a scegliere tra l’astensione, il voto a liste minoritarie, nella consapevolezza della loro quasi scontata inutilità, o, peggio ancora, il voto a coalizioni di cui ormai diffida da tempo, ma che fatalisticamente ritiene l’unica opzione realistica percorribile, con l’unico inevitabile risultato di rimanere ogni volta delusa e ogni volta più rassegnata su tutto e su tutti. Sul piano culturale e artistico non ha riferimenti, anche perché quei pochi che non sono già stati assorbiti dal sistema dominante sono del tutto esclusi dai grandi circuiti mediatici e audiovisivi (iTunes, Spotify, YouTube ecc.) o, quando non sono esclusi, sono completamente schiacciati dal volume assordante della musica di regime e, pertanto, ridotti fatalmente all’insignificanza e alla marginalità. L’informazione è, forse, il piano su cui la seconda metà è meno indietro. Ormai diffida dei tg e dei giornali mainstream (come testimonia la paurosa perdita di audience degli stessi) e ha imparato a cercare le notizie su canali alternativi. Ma anche qui siamo lontani dall’aver creato un vero e proprio mondo parallelo autosufficiente, se non altro perché una buona fetta della popolazione continua a ignorare o a guardare con sospetto quella che sbrigativamente viene definita informazione alternativa, per il semplice fatto che non esce da quello stesso schermo o da quello stesso altoparlante da cui è abituata da sempre a ricevere le notizie.

Va da sé che la prima metà domini completamente la seconda. Non solo perché dispone, oltre che del controllo delle risorse economiche e finanziarie, del potere della legge e del potere dell’informazione, grazie ai quali è in grado di stabilire di volta in volta e a propria totale discrezione ciò che è vero e ciò che falso, ciò che è legale e ciò che è illegale, ciò che è scienza e ciò che è complottismo, disinformazione ecc. Ma soprattutto perché dispone di una propria coesione ideologica interna, che si rafforza quanto più si sente minacciata dall’altra metà che non riesce a raggiungere. Quanto più ha il terrore della propria estinzione, tanto più serra le proprie file e si compatta. Aumenta i decibel, urla, si sbraccia affannosamente gridando al lupo. Si autocelebra per allontanare l’incubo della propria fine. Lancia il grido di guerra. Sa bene che il suo predominio potrebbe essere vicino alla fine, ma, anziché mettersi in discussione e riflettere su come uscirne razionalmente, si trincera in se stessa e chiama alla battaglia contro il nemico. Il gioco, per il momento, sembra funzionare. Nessuno può dire esattamente per quanto ancora, ma intanto funziona e tanto le basta, poi si vedrà. D’altra parte, come ci insegna Gaber, il senso di appartenenza “si fa più forte alla presenza di un nemico, di un obiettivo o di uno scopo”. Non esiste miglior collante ideologico, politico ed emotivo per compattare le file che agitare lo spettro di un nemico. Specialmente quando quel nemico ti minaccia oggi su tutti i fronti: dal rifiuto di organi sovranazionali come l’OMS, l’UE, la NATO, il WEF, alla gestione della pandemia, alla valutazione sull’utilità delle vaccinazioni di massa e dell’efficacia dei vaccini, alla posizione da assumere nei riguardi della guerra in Ucraina, all’idea di stato nazionale, alla gestione del patrimonio pubblico e dell’economia nazionale, alle cause del cosiddetto cambiamento climatico, alle politiche energetiche fino all’idea stessa di società e di cultura. Quella che si combatte tra la prima e la seconda Italia non ha, almeno per ora, i connotati di una guerra civile. È una guerra ancora silenziosa, carsica, che però si combatte contemporaneamente su più livelli. Ed è una guerra a tutto campo, una battaglia epocale dalla quale solo una parte risulterà vincitrice. Il solco, nel frattempo, si allarga e diventa ogni giorno più profondo.

E DOPO?

Per chiudere, torniamo al punto da cui siamo partiti. La reazione della metà esclusa degli italiani alle Panatenee dello ZTL, cioè Sanremo, è puramente difensiva. È la reazione tipica di chi, profondamente rassegnato, cerca sfogo nel sarcasmo e nello sberleffo, ma non si pone il problema di andare oltre quel modello e continua a subirlo passivamente. Di chi si illude che sia sufficiente ridere di un problema per cancellare il problema. Attacca il modello, che è il più esclusivo ed escludente che possa esistere benché pretenda di farsi interprete dell’inclusività. Ma non va oltre quello. Non va oltre il dileggio fine a se stesso, nemmeno si interroga se, parlandone, non contribuisca ad aggravare quel problema. Nel migliore dei casi, si rifugia nella rievocazione nostalgica di un passato ormai da tempo tramontato, quando “Sanremo era Sanremo”, ignorando che il festival era allora un vero concorso canoro, in primo luogo, perché era il riflesso di un’Italia che era assai più unita e coesa socialmente di quella di oggi. Un Paese in cui, certo, le fazioni arrivarono a lottare duramente in Parlamento, nelle piazze, nelle università, a volte con la parola, a volte con le spranghe e le pistole, per superarsi e prevalere sull’altra. Divise su tutto, ma mai al punto da ritenere che la parte opposta dovesse semplicemente scomparire, essere esclusa, cancellata, dimenticata, ridotta al silenzio in quanto non meritevole di avere nemmeno voce in capitolo, “zittita” per usare le ormai famose parole di un politico. Anche nei momenti di tensione più estrema, quando si ricorse al mitra o al terrorismo infiltrato per eliminare fisicamente un rappresentante della fazione avversaria allo scopo di colpirla duramente e privarla di un leader (un po’ come succede in guerra, quando si cerca di annientare un generale o il comandante di un battaglione), nessuno si illudeva che questo sarebbe bastato a far scomparire per magia l’altra metà. All’epoca a nessuno sarebbe venuto in mente di rinchiudere in casa una parte consistente della popolazione o di obbligarla a uscire con l’ignobile e inutile mascherina. Tanto meno di escluderla dalla vita sociale e lavorativa per decreto, come se fosse un pericolo per il resto della comunità. E, soprattutto, anche nei momenti di maggiore tensione politica e sociale, nessuna delle due parti ha mai ritenuto di essere l’unica depositaria della verità e di avere una sorta di diritto naturale a governare sull’altra metà in virtù della propria presunta superiorità intellettuale, culturale ed etica. Se all’epoca Sanremo era pensato per unire offrendo un terreno comune in cui le due parti potessero riconoscersi, oggi il suo obiettivo è esattamente quello opposto: celebrare il trionfo di una parte e certificare la definitiva esclusione dell’altra. L’Italia di oggi è, a ben guardare, assai più divisa di quella di allora, con la differenza che oggi la parte perdente e non rappresentata non ha nemmeno i suoi riferimenti politici e culturali. Ma quello è solo il minore dei mali. Il peggio è che il più delle volte neppure si preoccupa di cercarli. Si accontenta di sfottere il Fedez, il Bassetti, il Burioni della metà vincente, senza porsi il problema di sostituirli e con chi. Senza preoccuparsi del dopo. Senza, soprattutto, prepararsi al dopo.

Qualcuno potrebbe obiettare che questi fenomeni non sono controllabili e trascendono le capacità di ognuno di noi. E sarebbe difficile dargli torto. Hegelianamente non ci resta, infatti, che attendere che il tempo faccia il suo corso. Per vedere nuovi volti e nuovi modelli alternativi in politica, in TV, all’AIFA, alla Corte costituzionale, alla Presidenza della Repubblica, nella scuola, nelle università, non ultimo a Sanremo, dovremo fatalmente aspettare. Ma, nel frattempo, non sarebbe affatto male iniziare a pensare fin d’ora a come ricostruire un domani quello che vorremmo distruggere oggi. E il primo passo, quello minimo, embrionale, ma pur sempre indispensabile, è imparare ad andare oltre l’esistente e oltre se stessi. Non limitarsi a distruggere questo mondo, ma porsi finalmente il problema di come ricostruirlo attorno a pochi valori comuni fondanti e irrinunciabili. Iniziare a pensare che le nostre azioni non sono necessariamente inutili solo perché non producono risultati concreti nell’immediato, ma, al contrario, sono l’inizio, l’embrione, la scintilla di un qualcosa di più grande che potrebbe arrivare un domani. Un qualcosa che la nostra generazione forse arriverà a vedere o forse no. Risultati di cui beneficerà comunque qualcun altro che verrà dopo di noi. Occorre uscire dalla dimensione individualistica dell’hic et nunc e tornare a guardare all’esistenza come a un qualcosa che non si esaurisce nella morte fisica, ma sopravvive nel ricordo, nella testimonianza, nell’eredità materiale e culturale che lasciamo dopo di noi. Recuperare una dimensione storica e sovraindividuale di se stessi. Inutile parlare di ricostruire l’Italia, se prima non si ha il coraggio di mettersi in gioco e di anteporre il progetto alla fruizione del risultato immediato.

Dite che è quasi impossibile ipotizzare una cosa del genere nell’era dell’individualismo? Forse avete ragione, eppure, guardando al passato, è questa l’unica condizione che ha permesso ogni volta il cambiamento e il superamento dell’esistente. Mettersi in gioco: questa è l’unica variabile che fa davvero la differenza. Al resto ci pensano il tempo e l’aggregazione. No, non serve che tutti arrivino a questa consapevolezza. Benché auspicabile, sarebbe un’utopia sperare che ciò accada. Basterà che ci arrivi un numero sufficiente di persone, abbastanza coese tra loro e abbastanza influenti da riuscire a dar vita a un movimento, che cresca in misura esponenziale fino a raggiungere la famosa massa critica. Prima o poi accadrà. E accadrà prima di quanto si immagini, se un numero abbastanza grande di individui inizierà a capire che il modo più produttivo per criticare i contenuti e i valori che ci trasmette la TV è quello di spegnerla. Che il modo migliore per liberarsi dalle bugie del mainstream è quello di ignorarlo e di cercare l’informazione altrove o, meglio ancora, di creare un proprio canale di informazione. Che l’unico modo per permettere una nuova stagione culturale e artistica al di fuori dei circuiti attuali è quello di creare nuovi circuiti o almeno supportare chi si sta impegnando già oggi a crearli. Quando, insomma, si passerà dalle intenzioni all’azione, dall’auspicio all’organizzazione delle idee.

Sembra complicato, eppure basta cominciare a guardare oltre il proprio naso e tutto diventa dannatamente semplice, intuitivo. Quasi banale.

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