L’ATTACCO FINALE ALLE SOCIETÀ PUBBLICHE: LA LEGGE SULLA CONCORRENZA DEL GOVERNO DRAGHI

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Di Valeria Soru

Sommario

Il “doppio binario” del sistema europeo delle società pubbliche

L’attacco finale alle società pubbliche, la legge sulla concorrenza del Governo Draghi

Il ricorso del TAR Liguria, la sentenza n. 100 della Corte Costituzionale ed il parere del Consiglio di Stato alla proposta di aggiornamento delle linee guida ANAC n° 7 sulle società in house.

La debolezza delle ragioni economiche segnalate dall’Autorità Garante per la Concorrenza per la spinta alle privatizzazioni delle società detenute dagli Enti Pubblici Locali

Il caso della privatizzazione della Tirrenia ed il crollo verticale della domanda di trasporto

Il caso delle ferrovie inglesi

Conclusioni


Il “doppio binario” del sistema europeo delle società pubbliche

La scelta di ostacolare l’impresa pubblica è una caratteristica tutta italiana che non trova riscontro negli altri paesi europei, tuttavia la spinta alle privatizzazioni ha matrice europea. È infatti attraverso un sofisticato sistema di “due pesi e due misure” messo in piedi dal regolamento 1176/2011, meglio conosciuto come “Semestre Europeo” che la Commissione Europea ed il Consiglio hanno il potere di introdurre un diritto speciale, contrario al diritto generale, rivolto puntualmente a singoli paesi.

La forzatura che ha spinto alle privatizzazioni delle municipalizzate rappresenta un esempio di diritto speciale valevole solo per l’Italia, indotto dalle istituzioni comunitarie essendo le pubbliche amministrazioni ordinariamente libere di utilizzare le proprie società in house, per la gestione dei servizi pubblici anche di rilevanza economica,[1] in base al principio di autorganizzazione o di libera amministrazione.

I poteri esercitati da Commissione e Consiglio sui singoli paesi[2] sono ampi: “la Commissione può formulare progetti di raccomandazioni agli Stati membri per la correzione degli squilibri individuati. Queste raccomandazioni possono essere pubblicate contestualmente alla pubblicazione dell’esame approfondito o successivamente, unitamente ad altre raccomandazioni specifiche per paese”[3]

È stato così generato un ordinamento a doppio binario per cui nel primo binario sono previste le norme generali contenute nei trattati, nei regolamenti e nelle direttive, valide per tutti gli Stati dell’Unione Europea, che consentono l’indifferente utilizzo delle imprese pubbliche[4] e private per lo svolgimento di servizi di rilevanza economica. Nel secondo binario, attraverso il sistema amministrativo azionato dal “semestre europeo” vengono forzati gli ordinamenti nazionali per introdurre le norme speciali in grado di vanificare le libertà contenute nei Trattati, e valevoli solo per il paese destinatario. Le forzature consistono in raccomandazioni, le quali altro non sono che limiti, ostacoli, divieti, imposizioni per il paese cui sono dirette.

Non è dunque l’approccio autolesionista del legislatore italiano il mandante delle norme che, per indurre alle privatizzazioni, aggiungono “oneri amministrativi e tecnici ulteriori rispetto a quelli previsti dalla normativa comunitaria”[5], quanto il decisore comunitario esterno. La stessa Corte costituzionale, nella sentenza 100 del 2020, di cui fornirà maggior dettaglio nel paragrafo successivo, ha infatti rilevato: “la norma delegata, in effetti, è espressione di una linea restrittiva del ricorso all’affidamento diretto che è costante nel nostro ordinamento da almeno dieci anni”. Non a caso, le norme speciali a carico degli Stati posti sotto sorveglianza dalla Commissione Europea e dal Consiglio sono vigenti proprio da dieci anni a questa parte.

Si riportano a titolo di esempio alcuni passi delle raccomandazioni pubblicate negli anni scorsi a partire dal 2014:

2014[6] “L’aggiustamento strutturale previsto nel programma di stabilità permetterebbe all’Italia di rispettare il parametro di riferimento della riduzione del debito nel periodo di transizione 2013-2015, in parte grazie a un ambizioso programma di privatizzazioni da attuare nel periodo 2014-2017 (pari a 0,7 punti percentuali di PIL ogni anno).”

2016[7] “La riforma della pubblica amministrazione è un passo importante che, se saranno adottati e attuati i necessari decreti legislativi, permetterà all’Italia di cogliere i benefici attesi in termini di maggiore efficienza e migliore qualità nel settore pubblico. Di particolare importanza per risolvere la cause profonde delle inefficienze sono i decreti legislativi sulle imprese di Stato e sui servizi pubblici locali, proposti dal governo a gennaio 2016”

Con tale meccanismo delle raccomandazioni e della sorveglianza, attraverso le interferenze di oscuri uffici di Bruxelles, non sottoposti ad alcun controllo democratico e tanto meno ad alcun pubblico dibattito, al punto che è sfuggito pure dall’orizzonte della Corte Costituzionale[8], è stato possibile mettere in piedi un sistema di due pesi e due misure tra i paesi membri dell’Unione Europea.[9]

È indubitabile che la matrice delle privatizzazioni italiane abbia origine nelle istituzioni sovranazionali del Consiglio e della Commissione Europea.

L’attività legislativa, di iniziativa prevalentemente governativa, nonché l’attività regolamentare esercitata dagli apparati statali “indipendenti” quali l’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC), l’Autorità Garante della Concorrenza e dei mercati (AGCM) e le Autorità regolatorie di settore dei trasporti ART e dei servizi energia, reti e ambiente (ARERA), sono state la cinghia di trasmissione degli input sovranazionali.

Nessuno spazio di dibattito è stato invece concesso all’interno delle Istituzioni di rango costituzionale, quali il Parlamento e il CNEL, nonché della volontà del popolo espressa nel partecipatissimo referendum sull’acqua pubblica del 2011.

Perciò, solo per l’Italia e per la Grecia, quest’ultima sotto la direzione della Troika, si è assistito ad un attacco sistematico alle imprese pubbliche che gestiscono servizi pubblici.

Tutto ciò sta avvenendo in totale contraddizione con i principi della Costituzione Repubblicana, in particolare degli articoli 41 e 43, molto poco presidiati e difesi dalla Corte Costituzionale, che disciplinano la libertà d’impresa pubblica senza alcun condizionamento o limite se non quello del benessere dei cittadini.

Assistiamo senza difesa, subendone tutte le conseguenze, ad un meccanismo europeo di “due pesi e due misure” in contrasto con la Costituzione Italiana e con gli stessi Trattati europei. Per gli stati europei più liberi, o meno sudditi, vale infatti solo il principio della liberalizzazione dei mercati che restano tali anche con la contemporanea presenza delle imprese pubbliche e private. Liberalizzazione e privatizzazione sono due concetti molto diversi, è infatti ben possibile la presenza di una impresa pubblica in una competizione liberalizzata.

Ciò che sta accadendo in Italia è invece una forzata privatizzazione che comporterà la forte riduzione se non addirittura la scomparsa delle imprese pubbliche anche nel settore dei servizi pubblici tradizionali del trasporto pubblico locale e dei servizi idrici.

In definitiva, la libera autorganizzazione delle pubbliche amministrazioni non è messa in discussione dalle norme comunitarie, e ben potrebbe uno stato nazionale trovare il punto di equilibrio tra la libera organizzazione e la concorrenza e del mercato, quasi ovunque in Europa eccetto che in Italia o in Grecia.

Il ricorso del TAR Liguria, la sentenza n. 100 della Corte Costituzionale ed il parere del Consiglio di Stato alla proposta di aggiornamento delle linee guida ANAC n° 7 sulle società in house

Dell’anomalia della legislazione italiana, più oppressiva rispetto a quella comunitaria, si è occupato anche il TAR Liguria il quale, nel 2020, ha rilevato la sospetta incostituzionalità dell’art. 192 comma 2 del Dlgs. 50/2016 (codice dei contratti) nella parte in cui prevede che le stazioni appaltanti danno conto, nella motivazione del provvedimento di affidamento in house, delle ragioni del mancato ricorso al mercato.

Secondo il TAR Liguria il principio di autorganizzazione o di libera amministrazione delle autorità pubbliche, anche di fonte europea, sarebbe stato compromesso dall’imposizione di obblighi motivazionali supplementari circa le ragioni del mancato ricorso al mercato, in violazione della stessa legge delega del codice dei contratti che aveva fissato, tra gli altri, il divieto del gold plating, ossia di introduzione o di mantenimento di livelli di regolazione superiori a quelli minimi richiesti dalle direttive.

La Corte Costituzionale che ha giudicato il caso, Presidente Marta Cartabia, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale adducendo quale motivo la perdurante volontà del legislatore di restringere il ricorso all’affidamento diretto:

“9. La norma delegata, in effetti, è espressione di una linea restrittiva del ricorso all’affidamento diretto che è costante nel nostro ordinamento da oltre dieci anni e che costituisce la risposta all’abuso di tale istituto da parte delle amministrazioni nazionali e locali, come emerge dalla relazione AIR[10] , relativa alle linee guida per l’istituzione dell’elenco delle amministrazioni aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori….” ed ancora “9.1. Già l’art. 23-bis del D.L. 112/2008, abrogato a seguito di referendum, richiedeva, tra le altre condizioni legittimanti il ricorso all’affidamento in house nella materia dei servizi pubblici locali, la sussistenza di situazioni eccezionali…che non permettono un efficace ed utile ricorso al mercato.”

La Corte Costituzionale ha concluso che “la specificazione introdotta dal legislatore delegato è riconducibile all’esercizio di normali margini di discrezionalità ad esso spettanti nell’attuazione del criterio di delega, ne rispetta la ratio ed è coerente con il quadro normativo di riferimento.”

Risultano in questa sentenza almeno due “pilastri” motivazionali della Corte Costituzionale che appaiono basati su fondamenta fragilissime.

  1. Il giudizio dell’autorità indipendente ANAC di un supposto “abuso di tale istituto da parte delle amministrazioni nazionali e locali”.
  2. Il richiamo alle ragioni di una norma (art. 23-bis del D.L. 112/2008) già abrogata con referendum nel 2011.

Per il primo “pilastro” si può infatti obiettare che se la scelta organizzativa della pubblica amministrazione è per diritto libera, non può essere contemporaneamente qualificata come “abuso” dando una qualifica negativa di anomalia ad un diritto ordinario incontestabile ed in linea con gli articoli 41 e 43 della Costituzione, neppure lontanamente citati nella sentenza.

Pure il Consiglio di Stato, recentemente interpellato per valutare le nuove linee guida sugli affidamenti alle società in house formulate dall’Autorità anticorruzione, ha sospeso il suo giudizio nuovi gravami motivazionali facendo notare una certa incoerenza della linea restrittiva con lo scenario normativo in materia di semplificazione e accelerazione delle procedure di affidamento succedutesi dal 2019 in avanti[11].

Nel suo parere ha ribadito “il rilievo centrale ai fini di una gestione efficace del piano di ripresa e resilienza e, più in generale, agli effetti di un recupero dello storico deficit di capacità realizzativa delle opere pubbliche e di spesa degli investimenti pubblici, anche comunitari, che affligge non da ieri il Paese”.

Il Consiglio di Stato, senza mezzi termini, ha evidenziato che le prassi amministrative che ci si propone di cambiare per le società in house assumono un rilievo strategico e centrale nella realizzazione degli investimenti pubblici, per cui l’esigenza di speditezza, celerità, efficienza ed efficacia operativa delle pubbliche amministrazioni nella realizzazione degli investimenti pubblici dovrebbe essere equilibrata e non messa in secondo piano rispetto alle esigenze della concorrenza e della trasparenza.

Per il secondo “pilastro”, il richiamo del Giudice delle leggi ad una norma abrogata in sede di referendum, dà l’impressione di voler raschiare il fondo del barile pur di dimostrare le risalenti e consolidate ragioni alla eccezionalità dell’uso di società pubbliche rispetto al mercato che, evidentemente, così consolidate e risalenti non erano.

Al di là della tenuta costituzionale della norma contestata dal Tar Liguria, l’effetto della sentenza 100/2020 è stato nei fatti quello di innovare il diritto costituzionale, ciò in quanto il legislatore di oggi e tutte le istituzioni ed agenzie che hanno un ruolo di influenzare il governo, la citano sempre quale premessa per giustificare l’eccezionalità dell’uso delle società pubbliche, bypassando, come se non esistessero, gli articoli 41 e 43 della Costituzione.

Di fatto, in materia di agibilità della pubblica amministrazione nella scelta delle modalità organizzative dei servizi pubblici si sta assistendo ad un’operazione rivoluzionaria del diritto, sempre più frutto di equilibrismi interpretativi volti a sostenere le scelte dei Governi, nella totale inconsapevolezza dei destinatari della rivoluzione perché privati nei fatti, da un lato delle attività di rappresentanza dei parlamentari, dall’altro lato della non meno importante informazione che sarebbe scaturita da un vero dibattito pubblico.

La debolezza delle ragioni economiche segnalate dall’Autorità Garante per la Concorrenza per la spinta alle privatizzazioni delle società detenute dagli Enti Pubblici Locali

Con la legge annuale sulla concorrenza del 2021, ancora in Parlamento in attesa di essere approvata, è contenuta l’ennesima riforma dei servizi pubblici locali e l’ennesimo tentativo di privatizzare le società pubbliche detenute dagli enti locali, le ingombranti società in house che tanto disturbo provocano ai mercati in quanto sottraggono interessanti linee di business in settori fondamentali per la vita dei cittadini, quali i servizi idrici ed i servizi di traporto pubblico locale. Sono anni che, sulla spinta delle raccomandazioni europee, si sta cercando di eliminare ciò che resta in Italia della gestione pubblica dei servizi.

La pressione è forte perché su questa riforma il Governo ha fatto delle promesse alla Commissione Europea, accettando delle condizioni nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza – PNRR, al punto che ha posto la fiducia sul provvedimento.

Al di là della poco democratica pratica di reintrodurre dalla finestra norme già sonoramente bocciate dal plebiscitario Referendum del 2011, consolidato dalla pronuncia della Corte Costituzionale 199 del 2012[12] che bocciò le norme in sostituzione delle precedenti abrogate in quanto sostanzialmente identiche, incombe prepotente l’effetto finale, non dichiarato, della riforma, quale apertura “agli investimenti speculativi privati nel settore dei servizi pubblici locali” [13].

Oltre le inconsistenti ragioni giuridiche che imporrebbero la riforma, in antitesi col diritto di libertà di organizzazione delle pubbliche amministrazioni sancito anche dal diritto europeo, oltre che dalla Costituzione, appaiono deboli e poco argomentate anche le ragioni economiche che farebbero preferire la privatizzazione delle società detenute dagli Enti Locali rispetto all’attuale assetto che ha resistito nonostante l’avversità del legislatore.

Dal referendum del 2011 ad oggi sono stati infatti introdotti nell’ordinamento una raffica di caveat contro le partecipazioni pubbliche: norme che limitano la partecipazione in società, norme che limitano l’iniziativa delle società, norme che limitano l’apporto di capitale di rischio o di credito, norme dirette ad assoggettare le società al patto di stabilità.

Per individuare le ragioni economiche alle privatizzazioni occorre riprendere alcuni significativi passaggi delle ultime relazioni presentate dall’AGCM al Governo ed al Parlamento[14] che hanno costituito la fondamentale base di informazioni per la riforma.

La grande recessione degli anni Trenta, la crisi del Giappone degli anni Novanta e le più recenti crisi finanziarie ci hanno insegnato che anche quando il sistema economico si trova in difficoltà la concorrenza non è un lusso. C’è ampia letteratura che conferma come l’allentamento delle regole di concorrenza abbia prolungato la recessione degli anni Trenta; come l’indulgenza nel controllo delle concentrazioni non abbia favorito incrementi di efficienza e una maggiore stabilità finanziaria durante la crisi finanziaria globale del 2009  e nell’esperienza maturata dall’economia giapponese negli anni novanta; come, infine, i settori caratterizzati da una più intensa dinamica concorrenziale siano stati quelli che prima di altri hanno ripreso a crescere e a recuperare competitività, mentre i settori “protetti” con misure restrittive della concorrenza sono stati quelli dove l’impatto negativo sulla produttività è risultato più marcato”. [15]

Si tratta della premessa che anticipa il contenuto monocorde pro privatizzazioni della relazione tecnica, peraltro pressoché integralmente acquisita dal documento “The Role of Competition Policy in Promoting Economic RecoverThe Role of Competition Policy in Promoting Economic Recovery” OCSE 2020” di C.Volpin e rube Maximiano[16].

Essa mette in evidenza esclusivamente alcuni effetti negativi delle misure ostative alla concorrenza, sperimentate in passato negli USA ed in Giappone. Salta all’occhio il riferimento generico ai mercati nel loro complesso per cui non si comprende con quale salto logico possano essere estesi  ai settori dei servizi pubblici ed ai monopoli naturali che spesso caratterizzano tali settori, risulta però ancora più inquietante il fatto che dalla lettura integrale della fonte “Il Ruolo delle politiche della concorrenza” vi sono altri contenuti, molto più interessanti ed attinenti al tema, che suggeriscono interventi diversi dalle privatizzazioni per far fronte alla crisi, tra i quali “la necessità di mettere in campo una pluralità di misure” e, dunque, non esclusivamente una regolamentazione che favorisce l’apertura ai mercati, come invece lasciato intendere dall’AGCM.

L’indiscriminata apertura ai mercati, per giunta riferita ai servizi di pubblica utilità, evidentemente, non sarebbe sufficiente e, addirittura, potrebbe rivelarsi controproducente secondo il documento OCSE che, infatti, precisa:

“Entrambe le fasi richiederanno risposte politiche multidimensionali: dalle politiche fiscali, alle politiche monetarie, dalle politiche commerciali alle politiche industriali. Di fronte a una pandemia di portata senza precedenti, la possibilità di lasciare alle forze del mercato il compito di ripristinare la stabilità economica non è stata considerata una soluzione adeguata. I paesi stanno implementando pacchetti anti-recessione per ridurre al minimo i danni a medio e lungo termine per l’economia. Nella maggior parte delle giurisdizioni, lo stato ha svolto un ruolo nel ridurre al minimo il colpo diretto della crisi e ci si può aspettare che continui a svolgere un ruolo nel plasmare la ripresa[17].

Dispiace constatare come l’Antitrust abbia utilizzato solo una minima parte del documento OCSE, “cosa imparare dall’esperienza passata”, tralasciando fondamentali considerazioni contenute nel documento, quasi a voler avvalorare una tesi precostituita, ritagliando qua e là i passi coerenti con una tesi, anziché rappresentare tutte le possibili implicazioni ed effetti conseguenti alla privatizzazione di servizi fondamentali, fondamentali per poter prevedere il complessivo impatto. Questo tipo di analisi non è stata fatta, lasciando quindi il legislatore in una condizione di oscurità per quanto riguarda gli impatti prevedibili ed avviando una riforma con una prospettiva di salto nel buio.

Lo sforzo di analisi messo in campo dall’AGCM è stato minimale a fronte dell’importanza di una riforma che è destinata a rivoluzionare gli assetti dei servizi pubblici.

Sconcerta il fatto che nessuna analisi sia stata condotta sull’esperienza italiana delle privatizzazioni già avvenute dalla fine degli anni ’90 e neppure siano stati acquisiti lavori di ricerca in tema di servizi pubblici già condotti in altri contesti europei, eppure il dibattito internazionale sul tema delle aziende pubbliche è molto acceso da decenni, soprattutto in questi ultimi anni.

L’AGCM nella sua informativa al Governo ed al Parlamento ha proposto “di completare la riforma dei servizi pubblici locali e di circoscrivere il ricorso agli affidamenti in house ai soli casi in cui l’alternativa offerta al mercato non costituisca una soluzione più efficiente” senza spiegare in quali termini definire l’efficienza settore per settore e senza alcuna analisi sulle caratteristiche industriali delle gestioni cui si intende imprimere una privatizzazione.

Si spinge ade esprimere conclusioni imperative, quasi sentenze[18], senza nessuna analisi di supporto al giudizio espresso, che il “capitalismo pubblico non appare generalmente idoneo ad assicurare adeguati livelli di efficienza e di qualità dei servizi”, prevedendo a tal fine una normativa per la “riduzione del ricorso allo strumento dell’in house providing, con particolare riferimento al settore del trasporto pubblico locale”.

Vi è da chiedersi come mai né l’Antitrust né il Governo, né gli uffici legislativi si siano posti alcuni dirimenti quesiti: hanno davvero funzionato le privatizzazioni già condotte in Italia sul miglioramento dell’efficacia e dell’efficienza dei servizi? Hanno avuto un impatto positivo sull’economia? In quale misura?

Dubbi leciti e opportuni che non sono stati minimamente presi in considerazione mentre, quasi con un atteggiamento di fede, nonostante la specificità dei settori dei servizi pubblici, che mal si concilia col mercato, senza alcuna analisi che mettesse in guardia da effetti negativi, sono state formulate delle proposte unidirezionali pro privatizzazioni, contenenti i seguenti punti:

  • “fornire una chiara nozione di servizi pubblici locali di interesse economico generale”. Per quanto concerne questo punto si avrebbe la pretesa di limitare il concetto di servizio pubblico ad un elenco preordinato di servizi, mentre le esigenze della collettività ed il territorio sono dinamiche e variabili, verrebbe in tal modo esclusa ogni tipo di innovazione di iniziativa pubblica.
  • “prevedere una disciplina generale organica della materia, attraverso indicazione di principi generali per l’assunzione, la regolazione e la gestione dei servizi pubblici locali di interesse economico generale”. Il punto suggerisce di introdurre ulteriori oneri burocratici.
  • “individuare chiaramente le modalità di affidamento di tali servizi, eliminando i regimi di esclusiva non conformi ai principi generali in materia di concorrenza e comunque non indispensabili per assicurare l’efficienza e la qualità del servizio”. Il punto esprime la volontà di limitare la libertà organizzativa della pubblica amministrazione.
  • “per tutti i casi in cui non sussistano i presupposti della concorrenza nel mercato, individuare modalità di conferimento della gestione dei servizi nel rispetto dei princìpi dell’ordinamento europeo”. Si desume che all’Autorità sfugga la vigenza, dal 1948 dei principi costituzionali, tra i quali il principio della buona amministrazione sancito dall’art.97 della Costituzione.
  • “introdurre un generale onere motivazionale rafforzato in caso di affidamento del servizio in house, che dia conto delle ragioni del mancato ricorso al mercato e dei benefici per la collettività della forma di gestione prescelta, tenendo anche conto dei costi standard del servizio definiti dalle autorità indipendenti di settore.” In tal modo si genera una burocratizzazione dei processi. I costi standard, che avrebbero dovuto essere messi già a disposizione delle pubbliche amministrazioni, paiono lo specchietto per le allodole per indorare la pillola del gravame imposto. In realtà andrebbe segnalato il caso inverso delle ragioni di una mancata gestione diretta attraverso l’utilizzo delle proprie strutture.
  • “prevedere che la durata degli affidamenti sia ispirata a criteri di proporzionalità e giustificata sulla base di valutazioni tecniche, economiche e finanziarie”. I tempi brevi disincentivano i piani di investimento mentre le auspicate limitazioni temporali incentivano le speculazioni.
  • “prevedere la netta distinzione tra le funzioni di regolazione e controllo e le funzioni di gestione dei servizi.” È evidente l’intento di impedire alla pubblica amministrazione la gestione diretta dei servizi pubblici.

Per chi invece ritiene fondamentale esaminare concretamente se la proprietà privata sia più adatta o meno rispetto ad una pubblica, senza necessariamente sposare a priori una tesi piuttosto che un’altra, si propongo due casi concreti di privatizzazioni già “consumate” al fine di valutare il modello di proprietà più adatto al contesto specifico del settore considerato: il caso Tirrenia nel settore dei servizi marittimi di cabotaggio ed il caso delle ferrovie inglesi.

Il caso della privatizzazione della Tirrenia ed il crollo verticale della domanda di trasporto

Nel caso della privatizzazione del gruppo Tirrenia, non si può affermare vi sia stato un impatto positivo per i servizi di trasporto tra la Sardegna ed il Continente, né dal punto di vista delle casse dello Stato né dal punto di vista del consumatore né dal punto di vista dello sviluppo del PIL nazionale.

Prima della liberalizzazione nel mercato del cabotaggio marittimo nel Mediterraneo[19] i collegamenti marittimi dalla Sardegna al Continente erano garantiti dall’azienda di Stato Tirrenia che operava in convenzione con lo Stato il quale versava alla compagnia una sovvenzione nella misura necessaria a garantire la prestazione dei servizi di trasporto.

L’ultima convenzione precedente alla privatizzazione, risale al 1991.

Essa prevedeva dei programmi di esercizio quinquennali da concordare con il Ministero dei Trasporti che prevedevano le linee e i porti da servire, la tipologia, l’età massima e la capacità delle navi adibite ai collegamenti marittimi in questione, le frequenze e le tariffe da osservare, comprese le tariffe agevolate, in particolare quelle dei residenti delle regioni insulari, nonché una sovvenzione annua di equilibrio versato in parte in anticipo ed in parte a saldo con il calcolo di un eventuale conguaglio, in caso di costi superiori ai ricavi e di un rimborso della differenza nel caso in cui i ricavi superassero i costi.

Nel 2001 la compagnia fu oggetto di un procedimento della Commissione europea per indagare su sospetti aiuti di Stato[20]. Dall’indagine svolta dagli uffici di Bruxelles risultò che lo stato di salute economico finanziaria della società era equilibrato ed in progressivo miglioramento negli anni.

Per accertare se la compensazione annua versata a Tirrenia equivalesse al minimo necessario per la prestazione dei servizi corrispondenti alle esigenze di servizio pubblico prefissate dalle autorità italiane, la Commissione tenne conto di tutti i parametri che generavano, a carico dell’operatore pubblico, i costi addizionali dei servizi prestati e li confrontò con una ipotetica compagnia, chiamata Azzurra che operasse alle medesime condizioni di Tirrenia, evidenziando “che i vari elementi di costo presi in considerazione da Tirrenia da un lato e da Azzurra dall’altro, sono sostanzialmente gli stessi, ancorché contabilizzati in modo diverso”. [21]

In conclusione la Commissione stabilì che non corrispondeva al vero l’accusa mossa dalle compagnie private alla società pubblica di “praticare, sulle linee nelle quali si concentra la concorrenza degli operatori privati, una politica commerciale aggressiva, caratterizzata da tariffe in dumping, da sistemi di sconti e di pagamenti differiti che possono trovare una spiegazione soltanto nelle sovvenzioni pubbliche di cui Tirrenia beneficiava”, e che “non sussistono più dubbi in ordine alla compatibilità degli aiuti versati a Tirrenia di Navigazione ai sensi della convenzione del 1991”.

Il 19 maggio 2011, alla seconda gara per la privatizzazione, cessò di operare la società pubblica. Risultò vincitrice l’unica partecipante, la Compagnia Italiana di Navigazione (CIN), una nuova società formata, proprio per la privatizzazione di Tirrenia[22], da Marinvest (Gianluigi Aponte), Moby (Vincenzo Onorato) e Grimaldi che operò sulle stesse linee per la Sardegna con una convenzione firmata nel 2012 che prevedeva 72.686 milioni di euro,di cui 52.909 milioni di euro per le linee di cabotaggio con la Sardegna.

Per valutare l’efficacia della privatizzazione, il dato fondamentale di confronto è senza dubbio il numero dei passeggeri trasportati in quanto rileva il principale indicatore della quantità di servizio effettivamente prestato.

Nella figura tratta dalla relazione “La continuità marittima da e per la Sardegna” del Dipartimento Dicaar dell’Università di Cagliari[23], è rappresentato il flusso dei passeggeri Sardegna Continente dal 1994 al 2019.

A parità di impiego di risorse pubbliche per oneri di servizio pubblico imposti alla compagnia privatizzata per i servizi di continuità territoriale tra la Sardegna ed il continente, emerge dal grafico il crollo quasi verticale della domanda di passeggeri in coincidenza della privatizzazione della società Tirrenia, in ragione di una dinamica dei prezzi andata fuori controllo in quanto lasciata alle sole forze del libero mercato.

La correlazione inversa tra domanda di viaggio ed aumento delle tariffe è letteralmente esplosa tra gli anni 2010-2016, con una leggera attenuazione durante l’anno 2011 per effetto dell’avvio delle linee col continente operate da Saremar ma drasticamente evidenti nel periodo successivo alla cessazione dell’attività da parte della compagnia sarda di navigazione.

Il rincaro delle tariffe ed il conseguente crollo della domanda è stato appurato anche dall’Antitrust[24] nel provvedimento n° 24405 conclusivo di un’istruttoria avviata l’11 maggio 2011, a seguito delle numerose segnalazioni pervenute, nei confronti della società Moby S.p.a. e della sua co-controllante (assieme ad L19 S.p.a.) Onorato Partecipazioni S.r.l., della società Grandi Navi Veloci S.p.a. e delle sue controllanti Marinvest S.r.l. e Investitori Associati SGR S.p.a., della società SNAV S.p.a. (anch’essa controllata da Marinvest S.p.a.), della società Forship S.p.a. e della sua controllante Lota Maritime S.A., al fine di verificare la sussistenza di eventuali comportamenti restrittivi della concorrenza consistenti in un coordinamento finalizzato ad un aumento dei prezzi dei biglietti per i collegamenti marittimi da/per la Sardegna nella stagione estiva 2011.

L’istruttoria ha evidenziato rincari tariffari generalizzati in tutte le linee con un aumento dei ricavi guadagnati dalle compagnie nonostante la forte riduzione del numero dei passeggeri[25]:

“Nella stagione estiva 2011, invece, i prezzi sono aumentati in misura nettamente superiore: del 42% sulle rotte Civitavecchia Olbia (passando in media da 35 a 49 euro) e Genova-Olbia (passando da 57 a 81 euro), del 50% sulla Genova-Olbia (passando da 65 a 98 euro) e del 75% sulla Livorno-Olbia (passando da 33 a 57 euro).”

“Significativamente più consistente è stato l’incremento dei ricavi complessivi nella stagione estiva 2011: pari a circa 4,3 milioni di euro sulla Civitavecchia-Olbia/Golfo Aranci (+9%, a fronte di un -23% di passeggeri trasportati), a circa 5 milioni di euro sulla Genova/Vado Ligure-Porto Torres (+15% circa, a fronte di un -19% di passeggeri), a ben 15,3 milioni di euro sulla Livorno-Olbia/Golfo Aranci (+34%, a fronte di un -23% di passeggeri) e a 1,8 milioni di euro sulla Genova-Olbia (+4%, a fronte di un -30% di passeggeri)”[26]

Sono dunque evidenti gli effetti negativi sulla domanda di trasporto per la Sardegna determinati dal rincaro delle tariffe, cui si tentò di porre un argine tra il 2011 e il 2012 con l’introduzione di due linee per il continente gestite dalla “flotta sarda”[27] appartenente alla società regionale Saremar, puntualmente punita dalle norme sulla concorrenza applicate dalla Commissione Europea che ha addebitato allo Stato Italiano un’infrazione per aiuti di stato concessi causa del successivo fallimento.

La Commissione decise infatti la restituzione di un aiuto complessivo pari ad euro 10 milioni di euro delle sovvenzioni erogate dalla Regione Sardegna per oneri di servizio pubblico, seguendo dei ragionamenti e delle deduzioni incoerenti con le metodologie seguite dalla stessa Commissione solo dieci anni prima per il caso analogo della Tirrenia, allorquando per accertare se la compensazione versata equivalesse al minimo necessario per la prestazione dei servizi corrispondenti alle esigenze di servizio pubblico, prese la briga di fare i conti nel dettaglio, prevedendo l’ipotetica compagnia Azzurra.

L’istruttoria della Commissione, con argomentazioni al limite dell’illogicità, cui si rimanda alla lettura integrale della decisione[28], non condusse alcuna analisi controfattuale, come invece il caso avrebbe meritato, addebitando così alla Saremar la responsabilità di una perdita maturata nella nuova linea con il continente, a dimostrare l’inefficienza della Compagnia e la poca appetibilità per un privato investitore, perdita peraltro ammontante a soli 214 mila euro per il 2011, ma lautamente compensata dal freno alla caduta libera della domanda di trasporto marittimo, di valore enormemente maggiore per l’economia dell’Isola e della Nazione.

Fu addirittura imputata l’illegittimità di una ricapitalizzazione obbligatoria per legge (superiore ad un terzo del capitale) nonostante il fatto che la perdita da coprire riguardasse fattori estranei alla gestione operativa[29], adducendo la motivazione che un investitore privato non l’avrebbe coperta, escludendo quindi a priori la volontà di una pubblica amministrazione di volersi garantire nel tempo un servizio universale, quale è il diritto alla mobilità dei cittadini isolani, ad un costo ragionevole ed accessibile.

Il calo strutturale della domanda complessiva, di ingente dimensione pari all’area evidenziata nel rettangolo blu del grafico, ha certamente comportato una corrispondente riduzione del PIL per le mancate attività realizzate, si pensi al settore del turismo o anche allo smercio di produzioni locali.

È quindi smentita nei fatti l’infelice definizione “la concorrenza è non è un lusso” riportata nel documento AGCM, quando invece la stessa Autorità solo dieci anni prima ha dimostrato che la “concorrenza” attuata nel mercato dei servizi marittimi di cabotaggio con la Sardegna, privata della presenza calmierante di una compagnia di navigazione pubblica, non ha affatto migliorato le condizioni di accesso al servizio per molte famiglie italiane, per cui il trasporto è diventato senz’altro un lusso al punto che in molte hanno dovuto rinunciarvi.

Peraltro la stessa Autorità, per la stessa indagine, nel 2013 ha comminato una sanzione di oltre cinque milioni di euro per l’accertamento di una “pratica concordata finalizzata ad aumenti del prezzo dei servizi di trasporto via traghetto da e per la Sardegna nel 2011”[30],.

Una pronuncia che tuttavia venne ribaltata l’anno dopo dal TAR del Lazio il quale non ritenne vi fossero prove del cartello oligopolistico, seppure fu accertato l’effettivo aumento dei prezzi[31].

Nella sentenza del TAR che diede ragione alle compagnie di navigazione furono utilizzate argomentazioni al limite del cortocircuito logico come ad esempio: “L’Autorità, sempre per dimostrare l’accordo preventivo, rileva l’incongruenza tra l’aumento dei ricavi totali delle imprese attive a fronte della diminuzione dei passeggeri registrata nel 2011: ma l’aumento dei ricavi, anche a fronte di una diminuzione del traffico di passeggeri, sarebbe “il naturale riflesso della politica di incremento delle tariffe”. Si tratta di argomentazioninon molto diverse da chi si pone il quesito se è nato prima l’uovo o la gallina.

Se è ovvio che un aumento dei prezzi determina una riduzione della domanda, lasciando quindi fuori una parte di utenza che rinuncia al viaggio, dovrebbe essere altresì ovvio che il corrispondente aumento dei profitti è la manifestazione della condizione tipica del monopolista o oligopolista. L’extra profitto, nel caso in esame è andato a discapito del consumatore. Si tratta di un tipico caso di fallimento di mercato perché, in caso di non accordo tra le imprese o, meglio, in caso di effettiva concorrenza, si sarebbe dovuta osservare una riduzione del prezzo fino ad intaccare buona parte del profitto. È invece è accaduto l’esatto opposto, reso possibile dalla mancata presenza di un operatore pubblico che avrebbe avuto l’effetto di calmierare i prezzi del mercato.

Con la sentenza del TAR del Lazio, non solo non è stato censurato l’operato delle compagnie private di navigazione poste in una situazione di forza, non esistendo delle alternative al trasporto via mare, ma si è aperto un pericoloso precedente giurisdizionale.

Un fatto è certo, chi ha pagato la pratica dell’aumento dei prezzi generato dall’assenza della presenza pubblica e dalla privatizzazione è stato il cittadino e l’economia della Sardegna.

Alcuni amministratori locali si sono accorti degli effetti negativi sul servizio di trasporto a causa delle privatizzazioni dei trasporti marittimi[32], per cui l’ex Sindaco dell’Isola d’Elba è arrivato alla conclusione “Facendo un bilancio, questo meccanismo duplice di gestione privata e pubblica non ha funzionato”.

Il caso delle ferrovie inglesi

Appurato che nelle disamine condotte dall’AGCM scarseggiano analisi costi benefici e di impatto, è interessante constatare che in altri Paesi si siano posti il dubbio sulla effettiva convenienza della privatizzazione dei servizi pubblici di interesse economico. Sono eclatanti e note le scelte di Spagna, Francia e Inghilterra di riportare nell’alveo pubblico molti dei loro servizi precedentemente aperti alla concorrenza.

Non si è ritenuto di tenere conto di studi specifici disponibili in tema di “Trade off” tra gestione pubblica e privata dei servizi pubblici di trasporto, come quello pubblicato nel 2020 dalla società di ricerca inglese Oxera “How could ownership affect performance” [33]

Nell’interessante indagine, la ricercatrice Sahar Shamsi ha verificato le concrete implicazioni che i modelli di proprietà possono avere sui risultati operativi e sugli incentivi che influenzano la gestione delle imprese, di cui si riassumono di seguito le conclusioni.

Partendo dal concetto economico che l’allocazione più efficiente delle risorse scarse consente ad un sistema economico di funzionare al meglio, l’esame parte dalla definizione di efficienza statica e dinamica. Quella statica si concretizza nel modo in cui le risorse vengono utilizzate in un dato momento e quella dinamica che si riferisce ai cambiamenti nell’efficienza di un business nel tempo.

La struttura proprietaria può influenzare il livello di efficienza che cerca e massimizza. Una proprietà pubblica può garantire una posizione di pianificazione sociale a lungo termine, una proprietà privata fornisce invece un maggior incentivo a ridurre al minimo i costi grazie al suo scopo di lucro portando ad una maggiore efficienza produttiva.

Tale incentivo tuttavia può orientare le scelte del privato a forti devianze e portare le maggiori efficienze a discapito della sicurezza, ciò in quanto le società private di solito utilizzano il finanziamento del debito che imprime ulteriori pressioni sulla gestione, in aggiunta alle pressioni degli azionisti per l’incasso dei dividendi.

Un Governo, rispetto alle imprese private, anche nel concetto di efficienza statica può comunque ottenere maggiori economie di scala negoziando per conto dell’intero Paese o di un intero settore dell’economia.

Quanto all’efficienza dinamica la risposta a quale struttura della proprietà siano attribuibili i migliori risultati dipende dal livello e dall’efficacia degli investimenti e dell’innovazione. In generale, un livello più elevato di investimenti dovrebbe consentire un livello più elevato di efficienza dinamica.

Da un lato, un governo può investire più del settore privato, in quanto può prendere in considerazione i benefici a lungo termine di qualsiasi investimento per l’intera economia.

Al contrario, una decisione di investimento per una società privata è motivata principalmente dagli utili e può quindi portare a livelli di investimento diversi a seconda della forza di tale motivazione. Se tuttavia la regolamentazione del servizio non prevede incentivi di questo tipo o forti disincentivi in caso di mancati investimenti, è evidente che non vi potrà essere in capo a società private un’efficienza dinamica legata agli investimenti ed all’innovazione.

Alla luce di queste conclusioni è chiaro che oltre ai dubbi, dovrebbero essere ben presenti al decisore pubblico i rischi di una generalizzata privatizzazione nei settori caratterizzati da arretratezza delle infrastrutture e da inadeguati investimenti, come nel caso delle note reti colabrodo dei servizi idrici per cui non si capisce come una gestione privata potrebbe essere più adeguata nel realizzarli, dal momento che il largo spettro di coinvolgimento pari, ad un intero settore o un intero paese, imporrebbe economie di scala e tempi di investimento lunghi, tali da poter essere possibili solo per un attore pubblico, non obbligato a ritorni di breve termine verso gli azionisti.

Conclusioni

Con l’introduzione della nuova legge sulla concorrenza per la quale il Governo ha chiesto la fiducia, impedendo il necessario dibattito parlamentare e pubblico che la delicatezza della materia avrebbe necessitato, vi è un concreto rischio di impatto negativo in danno delle società pubbliche locali che gestiscono i servizi pubblici.

Esse saranno esposte a maggiori rigidità nelle scelte industriali rispetto ad analoghe aziende estere a partecipazione pubblica che non subiscono aggravi burocratici, peraltro in contraddizione con gli obiettivi di semplificazione e sburocratizzazione della pubblica amministrazione dichiarati.

Si pongono inoltre alle società pubbliche incomprensibili limiti gli obiettivi di outcome e di lungo termine per prediligere la visione di breve termine e di esercizio.

In generale, non si può non osservare che le operazioni di privatizzazione già realizzate, aggiunte alle altre iniziative di apertura dei mercati, abbiano allontanato l’Italia agli obiettivi di convergenza programmati. Si è assistito, al contrario, ad un maggiore distanziamento rispetto alle altre economie nord europee, che si è ampliato di anno in anno negli ultimi venti anni.

Il mancato apporto degli investimenti, uno dei fattori che certamente ha contribuito ad allontanare dalla convergenza l’Italia, non è dunque da ricercarsi nel mancato adempimento della completa apertura dei mercati, ma in altre cause, tra le quali, il ventennale avanzo primario che ha caratterizzato i conti pubblici italiani, il cui obiettivo di risanamento, di gran lunga il più performante di tutta l’area Euro, ha contemporaneamente contratto le risorse destinate agli investimenti pubblici, non compensati dagli investimenti privati che hanno avuto altre destinazioni in altri contesti extra nazionali.[34]

Per contro, nello stesso periodo, gli obiettivi di convergenza dell’economia reale si sono allontanati sempre di più e con essi quelli della piena occupazione.

Nella relazione dell’Antitrust risulta che il principale responsabile della cattiva dinamica del sistema produttivo italiano e del divario registrato rispetto al resto dei paesi europei sia attribuibile al deficit di concorrenza.

“L’ampio divario che caratterizza le dinamiche del sistema produttivo italiano rispetto al resto dell’Unione Europea –che comunque nasconde significative differenze tra imprese, settori e aree geografiche -si spiega infatti non solo sulla base del basso livello di investimenti e innovazione o delle carenze che caratterizzano il quadro istituzionale e amministrativo ma anche per il deficit di concorrenza che si registra in diversi settori.”

Per quanto riguarda i servizi pubblici di rilevanza economica questa affermazione è senz’altro criticabile, non risulta infatti vi sia in questo comparto una presenza superiore delle imprese pubbliche italiane rispetto a quelle dei principali paesi Europei.

Il grafico sottostante mostra il valore delle partecipazioni pubbliche in percentuale del PIL di Francia, Germania, Regno Unito, Italia e Spagna ed è evidente che l’Italia, insieme al Regno Unito, registra i valori più bassi.

Si noti il mantenimento del ruolo pubblico in economia della Francia e l’enorme crescita della Germania. Piuttosto, è evidente che la principale causa della dinamica asfittica italiana sia imputabile al crollo degli investimenti, ma questo aspetto in realtà ha caratterizzato tutta l’economia europea che, infatti ha perso competitività rispetto ai principali blocchi economici degli Stati Uniti e Asiatici.

Di seguito si richiama la recentissima accreditata letteratura al riguardo: “The Effects of the Economic Adjustment Programmes for Greece: A Quasi-Experimental Approach”- Department of Economics, University of Cantabria, 39005 Santander, Spain 28.4.2021[35]; che dimostra il fallimento delle misure regolamentari adottate in Grecia[36], misure che invece nella relazione OCSE del 2020[37] presa come base per la predisposizione della Relazione dell’Antitrust 2021 pro privatizzazioni, risultano come un caso di successo. In conseguenza del limitato spettro di analisi per la poca letteratura utilizzata, prevalentemente la citata pubblicazione dell’OCSE la quale, peraltro, aveva tutt’altro obiettivo rispetto agli scopi dell’Autorità, risulta necessario riflettere sui rischi originati dall’apertura della concorrenza nei settori dei servizi di trasporto pubblico locale e dei servizi idrici.

Non sono stati minimamente indagati gli effetti che un’apertura alla concorrenza può ingenerare negli equilibri macroeconomici e microeconomici scatenati da una grande crisi globale che, ricordiamo, non ha precedenti nella storia post bellica europea, con implicazioni mai prima sperimentate sugli effetti domino prodotti dalla forte integrazione delle produzioni (catene del valore), ben diverse da quelle occorse in passato.

Avendo preso in considerazione solo la letteratura pro apertura di mercato e nessuna contro, risulta difficile ponderare in modo compiuto gli effetti della privatizzazione dei servizi pubblici col rischio di ritrovarsi con una situazione peggiore rispetto a quella esistente, fatto concretamente possibile non essendovi alcuna analisi d’impatto o costi benefici che tenga conto delle esternalità positive e negative, come il caso Tirrenia ha dimostrato.

Sarebbero da evitare situazioni per cui i risparmi delle privatizzazioni si esauriscano nei tagli sul costo del lavoro, in grado di deprimere il moltiplicatore della ricchezza nel territorio o, nei tagli alle manutenzioni ed alla sicurezza, fattore di rischio di incidenti sul lavoro e per l’utenza. Il caso del crollo del Ponte Morandi è esemplare. Occorrerebbe inoltre valutare se i maggiori profitti delle società privatizzate siano destinati a produrre ricchezza in altri contesti territoriali rispetto al luogo in cui i servizi sono espletati. I minori introiti in imposte e tasse sono una perdita secca di risorse da impiegare nel territorio in termini di investimenti per l’ammodernamento dell’infrastrutturazione.

Si dovrebbe inoltre tener conto dei costi di intermediazione aggiuntivi dovuti all’esternalizzazione, difficilmente quantificabili, tra i quali, non ultimo, il rischio di pretese di risarcimenti danni in grado di mettere sotto scacco la pubblica amministrazione con anni di incertezza, come il contenzioso aperto a seguito del crollo del ponte Morandi ha dimostrato.

L’autoproduzione dei servizi pubblici attraverso le società in house consente invece di soddisfare meglio le esigenze di emergenza, come dimostrato dalla recente pandemia, senza dover procedere alle complesse modifiche contrattuali generatrici di maggiori oneri e costose lungaggini, che i servizi esternalizzati ad aziende private invece necessariamente comportano.

Le ragioni che farebbero preferire la produzione interna sono da ricercare anche nella piena disponibilità dei fattori di produzione che consentirebbe immediati adeguamenti dell’offerta di servizi alle effettive esigenze, consentendo maggior speditezza nei programmi di investimento essendovi una sorta di verticalizzazione delle attività (dalla programmazione alla progettazione all’investimento), integrazione che, viceversa, non potrebbe essere garantita in egual misura se i servizi pubblici fossero gestiti da soggetti privati.

Vi sarebbero inoltre maggiori difficoltà e rischi di comportamenti opportunistici essendo le imprese orientate naturalmente al loro profitto ed alla massimizzazione del rendimento del capitale e ciò in contrapposizione all’interesse pubblico di ampliamento dei servizi, di garanzie sulle manutenzioni e sulla sicurezza.

L’appesantimento degli obblighi motivazionali previsto nella riforma significa invece voler svilire le decisioni pubbliche alle sole considerazioni di tipo meramente aziendale di corto raggio che si traducono nell’equilibrio finanziario di breve termine, anch’esso importante ma che rappresenta solo una piccola parte degli elementi che il decisore pubblico deve prendere in considerazione.

Di fatto, con la riforma della concorrenza, si limiterebbero immotivatamente sia gli obiettivi di outcome[38] possibili cui deve esprimersi senza limitazioni il soggetto pubblico locale che ha la competenza per l’erogazione dei servizi pubblici, sia gli strumenti a disposizione per realizzarli, aggravando i procedimenti a carico delle strutture amministrative al solo fine di disincentivare la proprietà pubblica delle imprese che erogano servizi.

Pare dunque del tutto irragionevole l’introduzione di ulteriori complessità a carico soprattutto degli Enti Locali, che si inseriscono in un già presidiatissimo procedimento delle società pubbliche[39], riguardante le fasi di programmazione, monitoraggio e controllo.

In definitiva la legge sulla concorrenza che il governo italiano sta imponendo un cambio di paradigma senza alcuna analisi di impatto, oltre che in totale assenza di dibattito parlamentare e pubblico, in netto contrasto con gli interessi fondamentali tutelati dalla Costituzione.

Essa depotenzierà l’agibilità della pubblica amministrazione italiana, ponendola in condizioni di debolezza rispetto alle analoghe amministrazioni di altri Paesi europei, come la Francia e la Germania[40] e, allo stesso tempo, incrementerà la dipendenza dall’esterno e le rendite di posizione per le funzioni pubbliche essenziali, quali i servizi idrici o i trasporti, fattori fondamentali per lo sviluppo del Paese.

A pensar male, e tutti gli elementi conducono in questa direzione[41], ci troviamo di fronte ad una riforma volta ad aprire alle speculazioni del mondo finanziario, mediante una forzatura del diritto sulle società pubbliche che non ha eguali nel resto d’Europa, con impatti imprevedibili sulla quantità e qualità dei servizi erogati, maggiori oneri per la collettività, crescita delle diseguaglianze ed un generalizzato arretramento dell’economia del paese.


[1] Si ricorda che la direttiva 2014/24/UE stabilisce che “nessuna disposizione dalla presente direttiva obbliga gli Stati membri ad affidare a terzi o a esternalizzare la prestazione di servizi che desiderano prestare essi stessi o organizzare con strumenti diversi dagli appalti pubblici ai sensi della presente direttiva”.

[2] Fonte: https://www.consilium.europa.eu/it/policies/european-semester/

[3] Descrizione riportata nelle pagine istituzionali del Consiglio.

[4] Gli affidi diretti sono consentiti alle imprese pubbliche che presentano le caratteristiche delle società in house.

[5] Cfr. Sentenza della Corte Costituzionale n° 100/2020

[6] Pag. 6 https://data.consilium.europa.eu/doc/document/ST%2010791%202014%20INIT/it/pdf

[7] Pag. 8 https://data.consilium.europa.eu/doc/document/ST-9205-2016-INIT/it/pdf

[8] Non vi è infatti traccia nella sentenza 100/2020 delle ragioni del mutato orientamento del legislatore a proposito della stretta agli affidi diretti.

[9] Cfr. pag. 14 del documento n. doc. Comm.: 9411/22 – COM(2022) 616 final del Segretariato Generale del Consiglio del 13.6.2022 “(21) Conformemente all’articolo 19, paragrafo 3, lettera b), del regolamento (UE) 2021/241, e al criterio 2.2 dell’allegato V di tale regolamento, il piano per la ripresa e la resilienza comprende un’ampia gamma di riforme e investimenti che si rafforzano reciprocamente, da attuare secondo un calendario indicativo per l’attuazione da completarsi entro il 31 agosto 2026. Questi affrontano tutte o un sottoinsieme significativo delle sfide economiche e sociali individuate nelle raccomandazioni specifiche per paese rivolte dal Consiglio all’Italia nei semestri europei 2019 e 2020, oltre che nelle raccomandazioni specifiche per paese formulate entro la data di adozione di un piano per la ripresa e la resilienza.

Dalle riforme in settori quali i trasporti e la gestione delle risorse idriche ci si attende un miglioramento strutturale dell’efficienza economica, tra l’altro mediante un ricorso più sistematico a procedure competitive per l’assegnazione dei contratti di servizi.”

Fonte: https://data.consilium.europa.eu/doc/document/ST-9759-2022-INIT/it/pdf

[10] AIR Analisi di impatto della regolazione.

[11] Fonte: https://www.iuranovitcuria.it/2021/10/14/il-parere-del-consiglio-di-stato-sulle-linee-guida-dellanac-in-tema-di-in-house/

[12] Fonte: https://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=2012&numero=199

[13] Citazione tratta dall’articolo del giudice dott. Marco Manunta pubblicato nella rivista trimestrale “Questione Giustizia” di Magistratura Democratica. Fonte: https://www.questionegiustizia.it/articolo/il-d-d-l-2021-sulla-concorrenza-una-privatizzazione-annunciata

 [14] “Segnalazione al governo ai fini della predisposizione del disegno di legge annuale per il mercato e la concorrenza” inviata dall’AGCM al Presidente del Consiglio dei Ministri nel marzo 2021. Fonte: https://www.agcm.it/dotcmsdoc/allegati-news/S4143%20- %20LEGGE%20ANNUALE%20CONCORRENZA.pdf

[15] Paragrafo “La concorrenza per tornare a crescere” pag. 2

[16] Fonte: https://www.oecd.org/daf/competition/the-role-of-competition-policy-in-promoting-economic-recovery-2020.pdf

[17] Cfr. pag. 10 ibidem.

[18] Cfr. pag. 21 della relazione 2021 Fonte: https://www.agcm.it/dotcmsCustom/getDominoAttach?urlStr=192.168.14.10:8080/C12563290035806C/0/914911A1FF8A4336C12586A1004C2060/$File/AS1730.pdf

[19] La liberalizzazione è sancita dall’articolo 6, paragrafo 2, del regolamento (CEE) n. 3577/92 del Consiglio, del 7 dicembre 1992, concernente l’applicazione del principio della libera prestazione dei servizi ai trasporti marittimi fra Stati membri (cabotaggio marittimo). Fino al 10 gennaio 1999 il cabotaggio con le isole del Mediterraneo era stato temporaneamente esentato dall’applicazione del principio della libera prestazione di servizi.

[20] Fonte: https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTML/?uri=CELEX:32001D0851&from=FR

[21] Decisione della Commissione del 21.6.2001 “Al riguardo, la Commissione osserva che il meccanismo di calcolo della compensazione prevede che i ricavi realizzati durante l’alta stagione contribuiscano a ridurre il disavanzo accumulato durante la bassa stagione, così che l’ammontare della compensazione annua che ne scaturisce resta, nell’insieme, inferiore a quello che si otterrebbe semplicemente sommando i disavanzi accumulati linea per linea. La Commissione constata inoltre che i ricavi dell’impresa sono soggetti ad un duplice vincolo tariffario, rappresentato, da un lato, dalle tariffe agevolate per talune categorie sociali e, dall’altro, dall’obbligo di ottenere l’approvazione delle autorità pubbliche per ogni modifica delle tariffe. Dalle informazioni trasmesse dalle autorità italiane risulta infatti che Tirrenia non è libera di adeguare le proprie tariffe, particolarmente in relazione all’andamento dei costi dell’esercizio. Questo duplice vincolo, che determina una sensibile riduzione dei proventi dell’impresa e si ripercuote sull’ammontare della compensazione annua, non può essere qualificato, in tali condizioni, come pratica commerciale aggressiva, caratterizzata da tariffe predatorie.

La Commissione rileva in secondo luogo che gli elementi di costo presi in considerazione ai fini del computo della compensazione sono stati definiti dalle autorità pubbliche, senza lasciare all’impresa alcun margine di discrezionalità. Questi elementi rispecchiano tutti i costi fissi e variabili direttamente connessi alla prestazione di servizi qualificati come servizi di interesse generale dalle autorità pubbliche e che, in quanto tali, sono contemplati dalla più volte citata convenzione (cfr. al riguardo la tabella I, considerando 38). Fra questi elementi di costo figurano in particolare l’ammortamento del naviglio e le spese per il carburante e gli oli minerali. In ordine all’ammortamento del naviglio, la Commissione ritiene che, nella misura in cui le navi di cui trattasi sono destinate in via esclusiva ai servizi contemplati dalla convenzione, questo elemento di costo può considerarsi necessario alla prestazione dei servizi stessi e pertanto può legittimamente entrare nel calcolo della compensazione annua. Per quanto riguarda il costo del carburante e degli oli minerali utilizzati dalle stesse navi, la Commissione non ha rilevato alcun elemento discriminatorio che comporti, a vantaggio di Tirrenia di Navigazione, una riduzione del costo dei combustibili e dei lubrificanti suddetti rispetto ad altri operatori di trasporto marittimo”

[22] Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Tirrenia_di_Navigazione#:~:text=Il%2021%20giugno%202012%20Tirrenia,e%20del%20greco%20Alexis%20Tomasos.

[23] Cfr. pag.6 della relazione DICAAR.

[24] Fonte: https://web.uniroma2.it/module/name/Content/newlang/italiano/action/showattach/attach_id/15157

[25] Si rileva che il contemporaneo aumento dei passeggeri per via aerea non è correlabile alla riduzione dei passeggeri per via marittima in ragione del diverso segmento di mercato servito, costituito dai passeggeri di voli low cost che hanno originato aumenti di domanda in tutta Europa, anche in misura superiore alla Sardegna, dove non si è assistito a contemporanee riduzioni di trasporto con mezzo navale in contesti simili come la Corsica.

 

[27] Fonte: https://www.ferpress.it/sardegna-al-via-la-seconda-tratta-della-saremar-la-dimonios-colleghera-porto-torres-e-vado-ligure/

[28] Decisione della Commissione Europea n. C(2013) 9101 final del 22.1.2014. Fonte: https://ec.europa.eu/competition/state_aid/cases/242193/242193_1965485_1347_2.pdf

[29] La perdita era originata dal mancato incasso di un credito nei confronti della società in liquidazione Tirrenia pari a 5 milioni di euro.

[30] https://st.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-06-14/lantitrust-multa-traghetti-sardegna-134730.shtml

[31]http://www.competition-law.eu/wp-content/uploads/2014/06/sent-tar-47312014-Moby-Agcm.html; https://www.lastampa.it/cronaca/2014/05/07/news/caro-traghetti-in-sardegna-il-tar-accoglie-il-ricorso-contro-l-antitrust-1.35751992/

[32] Fonte: https://www.tenews.it/2022/06/12/traghetti-necessario-agire-per-migliorare-e-dare-continuita-di-servizio-1097966/

[33] Fonte: https://www.oxera.com/insights/agenda/articles/how-could-ownership-affect-performance/

[34] Sulle ragioni del divario italiano degli investimenti pubblici e privati rispetto agli altri paesi europei si rimanda alla copiosa letteratura tra cui si segnala l’articolo del prof. Leonello Tronti (Università degli studi Roma Tre), “Investimenti, crisi e ripresa: il problema italiano. Un’analisi di lungo periodo” – https://www.uil.it/Documents/Approfondimenti_n3.pdf

[35] Fonte: https://www.mdpi.com/2071-1050/13/9/4970

[36] Conclusioni dell’analisi sul caso Grecia: “Durante la crisi del debito del 2010, coloro che hanno difeso l’approccio dell’assistenza finanziaria alla Grecia condizionata a rigorose misure di austerità fiscale e strutturali hanno sostenuto che esso avrebbe consentito al Paese di accedere ai flussi finanziari per un periodo sufficientemente lungo da evitare il fallimento. Ciò avrebbe consentito il paese di mettere in atto misure per tornare alla sostenibilità di bilancio, oltre ad agevolare la riforma strutturale dell’economia che, attraverso una svalutazione interna, avrebbe portato ad un miglioramento della competitività nonché ad una futura crescita sostenibile trainata dall’aumento della spesa esterna domanda”. [6,15].

Allo stesso tempo, coloro che hanno criticato l’approccio che condizionava l’intervento all’attuazione di rigorose politiche di austerità hanno sostenuto che l’intensità degli adeguamenti fiscali e salariali richiesta alla Grecia avrebbe aumentato le disuguaglianze ed avrebbe avuto effetti deprimenti affondando la domanda interna. Con ciò impedendo alla Grecia di raggiungere la sostenibilità fiscale e la crescita economica, creando così un circolo vizioso nella sua economia. [1,9,14].

Questa ricerca ha valutato l’effetto causale produttivo e distributivo dei programmi di aggiustamento economico (EAP) per la Grecia. Ha eseguito un’analisi quasi sperimentale applicando la Supply Chain Management fornendo tre contributi alla letteratura. In primo luogo, identifica l’effetto produttivo causato dai programmi di aggiustamento economico, stimando un impatto negativo a lungo termine sul PIL greco pro capite del 35,3%. Questo risultato avvalora le argomentazioni addotte da chi ha criticato l’approccio rigoroso adottato nel caso greco. In secondo luogo, fornisce evidenze empiriche sulla distribuzione cronologica dell’impatto insostenibile, mostrando che circa il 75% dell’effetto negativo si è verificato tra il 2010 e il 2012, con l’applicazione del primo Programma e l’inizio del secondo.

Nel corso del 2013 e del 2014 l’economia greca ha registrato un lieve miglioramento rispetto al controfattuale stimato. Tuttavia, ha subito una nuova perdita rispetto al controfattuale nel 2015, in coincidenza con il terzo PAA. Il terzo contributo è l’identificazione causale di un impatto distributivo regressivo. La popolazione greca con redditi più bassi ha subito un maggiore effetto negativo dei Programmi di aggiustamento economico.

Fino al 2017, a causa dei Programmi di aggiustamento, il quintile della popolazione con i redditi più bassi aveva ridotto il proprio PIL pro capite di poco più del 50%. Nello stesso periodo, l’impatto del secondo quintile con redditi più bassi ha registrato un calo del 45,9% del PIL pro capite. Gli impatti relativi stimati per gli altri tre quintili erano compresi tra il 32,4% e il 37% di diminuzione del loro PIL pro capite. A dimostrazione del mancato raggiungimento dei Programmi dell’obiettivo distributivo equanime in tutta la società greca. [23].

La valutazione degli effetti causali derivati dai Programmi di aggiustamento economico su larga scala applicati nell’UE è essenziale per identificare successi e fallimenti. Ciò consentirebbe il consolidamento delle migliori pratiche individuate nelle politiche pubbliche ed eviterebbe l’applicazione ripetuta di politiche fallite. Un processo per identificare le migliori pratiche è auspicabile sempre e ovunque, ma è ancora più pertinente oggi nell’UEM, dove la crisi economica causata dalla pandemia di coronavirus (COVID-19) ha riaperto il dibattito su assistenza finanziaria e condizionalità.”

[37] Cfr pag. 13 Relazione OCSE: “Le riforme favorevoli alla concorrenza sono state intraprese con l’assistenza dell’OCSE in collaborazione con l’autorità greca per la concorrenza (HCC). Nel 2013, 2014 e 2016 sono stati intrapresi tre progetti di valutazione della concorrenza, seguendo la metodologia definita nel kit di strumenti di valutazione della concorrenza dell’OCSE (OCSE, 2019[25]). I progetti congiunti OCSE-HCC hanno prodotto più di 700 raccomandazioni, la stragrande maggioranza delle quali attuate dal governo greco. Si stima che i benefici economici ammontino a circa 5,2 miliardi di EUR, ovvero circa il 2,5% del PIL (OECD, 2014)”.

[38] Obiettivi di impatto sociale ed economico macro e di lungo termine.

[39] Il Testo Unico delle Società Pubbliche D.Lgs 176/2016 norma minuziosamente gli adempimenti del socio pubblico.

[40] Cfr. le norme In-House-Geschäft -in house Vergabe, per le quali valgono i minimi requisiti indicati dalla sentenza Altmark mentre non vi sono ulteriori limitazioni assimilabili alla pregnante disciplina italiana delle società pubbliche di cui al testo unico delle imprese pubbliche D. Lgs 175/2016. Nella disciplina tedesca risulta del tutto irrilevante chi paga il canone (l’amministrazione aggiudicatrice o terzi in qualità di utenti del servizio) e in quale zona si svolge l’attività. Inoltre i “premi interni”, così definiscono le società in house non soggette alla burocrazia originata dall’applicazione delle norme sugli appalti pubblici, sono particolarmente comuni nel trasporto pubblico locale, poiché le società operative sono spesso i successori delle ex aziende municipalizzate, che ora sono gestite sotto forma di GmbH, ma le cui azioni sono per lo più ancora di proprietà esclusiva dei municipi.

[41] A tal proposito scrive Manunta sulla rivista Questione Giustizia: “Il contenuto del DDL si muove nel senso da lungo tempo auspicato dagli interessi finanziari internazionali e intende, prima di tutto, rimuovere l’ingombrante ostacolo costituito dai referendum del 2011. Del resto, si tratta di un intervento “annunciato” da molto tempo: dieci anni fa, il 5 agosto 2011, nel pieno della crisi delle borse europee e con lo spread (differenziale tra i tassi sui titoli italiani e i bund tedeschi) giunto a livelli insostenibili, il governatore uscente della BCE, Jean Claude Trichet, e Mario Draghi (che sarebbe succeduto a Trichet di lì a poco), avevano inviato al governo Berlusconi una lettera riservata, dettando una serie di misure economico-finanziarie da assumere urgentemente e che, sebbene non fosse reso esplicito, costituivano la condizione per ottenere il sostegno della BCE stessa, attraverso l’acquisto massiccio di titoli di Stato italiani. Tra le misure “suggerite” era compresa la «piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali» con specifico richiamo alla «fornitura di servizi locali attraverso privatizzazioni su larga scala». La successione temporale è importante: solo due mesi prima, nel giugno 2011, si erano tenuti i referendum, in particolare sui servizi pubblici locali, con i quali gli Italiani avevano espresso la netta contrarietà alla privatizzazione. Approfittando, però, del momento di grave crisi che aveva investito il nostro paese e ignorando l’esito dei referendum, fu proposta la privatizzazione sistematica. E non è un caso che uno degli autori di quella lettera riservata, quale odierno Presidente del Consiglio, riproponga oggi la stessa ricetta.”

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