LA DISTANZA CHE CI SEPARA DAI FATTI: WAG THE DOG (SESSO E POTERE)
Una commedia che parla di verità, giustizia e di tutti quegli effetti speciali che crediamo siano verità. Una commedia che parla delle guerre di oggi, come di quelle di ieri e domani.
Se negli ultimi tempi vi è sembrato plausibile che un missile inesploso potesse giacere nel cassonetto dell’indifferenziata di una famiglia ucraina che fa colazione. O che una nonna potesse fare strage di soldati con una torta alle carote. O che i nazisti non siano poi così nazisti, perché il loro comandante li manda a nanna leggendo la Critica della ragion pura di Kant. Beh, allora significa che avete davvero davvero bisogno di guardarvi Wag the Dog di Barry Levinson (1997).
Nulla è reale nei mass media. Tutto è artificio. Soprattutto in una guerra. Anche ciò che ci sembra di vedere con i nostri stessi occhi. Perché, come provo a spiegare nel mio anche nel mio documentario sul giornalismo “Post-Truth, la verità non è mai stata così falsa”, i media ci convincono di essere testimoni oculari degli eventi, sebbene tutto ciò che vediamo, ascoltiamo, leggiamo, esattamente come per tutti i prodotti editoriali, sia precedentemente selezionato. Quindi, filtrato.
Ma c’è un livello successivo. Non solo i mezzi di informazione mentono sapendo di mentire perché sono dominati da interessi corporativi, ma mentono anche NON sapendo di mentire. Perché la distanza siderale che divide lo spettatore dalla notizia, separa nello stesso modo anche i giornalisti stessi dai fatti. E questo nonostante si vantino di essere fonti privilegiate.
Ma in che senso i media sono lontani dalla notizia se la riportano loro?
Ecco: proprio questo passaggio fondamentale è spiegato brillantemente non solo da Giletti, che vuole grottescamente convincerci di essere in diretta da Bucha usando un green screen che manco nelle produzioni di Bollywood più disagiate. Ma, soprattutto, da una delle perle della mia “top-ten complottara” di sempre: Wag the Dog. Un titolo intelligente, ma di complicata traduzione (letteralmente: scodinzola il cane) che in Italia, come al solito, è stato deturpato con la motosega cancellando il senso dell’espressione usata in “politichese” per indicare qualcuno che sta usando un diversivo per distrarre l’attenzione da cose più importanti.
Tratto da un romanzo di Larry Beinhart del 1993 (American Hero), la sceneggiatura del drammaturgo David Mamet (Gli intoccabili, Ronin) racconta di uno scandalo alla Casa Bianca in cui il Presidente, reo di aver inzuppato il biscotto con una ragazzina, rischia di perdere le elezioni per il secondo mandato (una previsione piuttosto azzeccata visto lo scandaloso manage a trois Clinton/Lewinsky/sigaro venuto a galla nel 1998- un anno dopo l’uscita del film).
Grazie a una sorta di mister Wolf della politica, Conrad Brean (Robert De Niro), però, le cose vanno diversamente. Questo opinion maker, sopraffino conoscitore delle meccaniche mediatiche, riesce a deviare l’attenzione dallo scandalo sessuale, inventandosi di sana pianta una guerra che non sta avvenendo con la lontana Albania, grazie all’aiuto di un noto regista di Hollywood, Stanley Motts (Dustin Hoffman).
Se vi sembra troppo, pensate che l’autore del libro, Beinhart, azzarda nel suo romanzo che l’operazione Desert Storm dell’amministrazione Bush e persino la guerra delle Falkland tra Argentina e l’Inghilterra della Tatcher non fossero altro che un tentativo di deviare l’attenzione dai problemi di politica interna.
Dunque, balle totali. Quasi quanto la provetta di Colin Powell. Assurdo? Beh, dopo aver visto la fashion blogger Mariana recitare ne “il bombardamento dell’ospedale di Mariupol” per poi scoprire che era tutta una montatura, mica tanto. A meno che tu non sia Gramellini, ecco. Soprattutto perché, a ben guardare, le foto di Mariana che hanno fatto il giro del mondo (quelle recenti in cui è ritratta con Giorgio Bianchi decisamente meno) ricordano sinistramente proprio la scena ricreata in studio da Hoffman/Motts con una giovanissima Kirsten Dunst.
La guerra in Ucraina, la guerra del Vietnam e tutte (tutte anche quella al Covid) le guerre che abbiamo avuto la sfortuna di “vedere” sono contraffatte alla fonte. Anzi, la guerra è il campo in cui la propaganda stessa è stata per la prima volta messa in atto in modo massiccio in Europa durante il primo conflitto mondiale, grazie al sempre ‘democratico’ operato della Wellington House inglese. Anche volendo credere come pesci boccaloni a quanto ci raccontano i nostri amati mezzi di informazione, in un qualsiasi manuale di massmediologia appare evidente che i mass media sono lontani dalla notizia poco meno degli spettatori. A volte anche di più. E per questo si devono affidare alle istituzioni per attingere alle informazioni. Esattamente come potremmo fare noi. Così, La7 sorvola bellamente sul fatto che un video che manda in onda è chiaramente tratto da un videogioco per il solo fatto che proviene ufficialmente dal ministero ucraino, che i morti di Bucha si alzino e camminino come in un film di George Romero e il Presidente del paese sembri incastrato in un set-televisivo da cui non riesce a fuggire e, mentre i suoi subiscono un “genocidio”, sta a farsi fare servizi fotografici che manco Belen Rodriguez.
“Tra vent’anni vi ricorderete delle immagini legate alle guerre, ma non del perché quelle guerre sono state combattute. La guerra è spettacolo. Ecco perché siamo qui”. Robert De Niro/Brean
Il compito del film firmato alla regia da Levinson è lanciare proprio questo grido di allarme. Basta un minimo di tecnica cinematografica e i canali giusti per influenzare un paese intero. E oggi, nel mondo globale, interi emisferi. Basta dare spazio a una prospettiva piuttosto che a un altra. Le immagini ce le mettono loro, a seconda di quanto vogliano far credere, come nella caverna di Platone.
“Questa è politica al più alto livello”, dice orgogliosamente il regista Motts – Dustin Hoffman.
Ma come possono essere i media lontani dalla notizie se sono proprio loro a divulgarle? Si scandalizzeranno gli amanti della segregazione senza aria condizionata per fare un dispetto a Putin.
Naturalmente alcuni giornalisti vanno davvero in zone di guerra ma, ad eccezione di pochissimi (che di solito non vengono rilanciati da nessuno), vengono guidati nelle aree del conflitto dall’esercito della propria sponda, che censura preventivamente il loro lavoro guidandoli solo nei luoghi ritenuti “sicuri”. Perché, come per il Covid, la sicurezza viene prima di tutto.
Dunque, la macchina fotografica e persino la cinepresa sono armi potentissime come diceva Oswald Spengler. Parafrasandolo “le armi più potenti insieme alla polvere da sparo”.
Perché inquadrano una prospettiva (soggettiva e, quindi, distorta), non la realtà. Dunque non ci si può fidare delle immagini perché, come ammoniva Walter Lippmann già negli anni venti “le immagini grazie alla loro supposta originalità sono capaci di creare più reazioni emotive della realtà stessa”.
L’abisso che sussiste tra lo spettatore e la notizia è un’evidenza talmente conclamata che persino Hollywood non ha mancato di sottolinearlo a più riprese. Per questo, vi consiglio anche un altro film della mia personale classifica complottara: Capricorn One, su un finto viaggio su Marte. Dove l’incolmabile distanza tra spettatore/giornalisti e realtà rende qualsiasi accertamento della verità semplicemente impossibile e sposta l’evento su un piano totalmente fideistico.
“Non c’è nessuna guerra” dice l’agente della CIA Young a Brean. “Ma certo che c’è. L’ho vista in televisione”.
In questa perla satirica interpretata da un grande Hoffmann e da uno dei primi ruoli brillanti di De Niro sussistono molteplici elementi che ci chiariscono come la tecnica del brainwashing in atto fosse già piuttosto evidente agli addetti ai lavori negli anni 90. Nella pellicola possiamo infatti gustarci la creazione spudorata di artifici propagandistici come ne abbiamo visti tanti negli anni. Eventi drammatici (tutti di natura marcatamente emozionale), come il rimpatrio di un reduce mezzo matto rimasto tra le linee nemiche (Woody Harrelson), flashmob ante-litteram creati a tavolino, ma anche l’incisione ad hoc di canzoni struggenti per accompagnare la guerra che non c’è.
Tutte robe talmente assurde che poi ti guardi intorno e vedi che Madonna e il figlio hanno inciso un pezzo per l’Ucraina o che il figlio di John Lennon avrebbe rotto un fioretto cantando la Imagine di suo padre per dedicarla a Zelensky. E improvvisamente ti ritrovi a chiederti se davvero questa guerra esista, se Zelensky non stia ancora recitando (ma sia passato alla dramma grottesco) e, soprattutto, chi diavolo sia il figlio di John Lennon. Ah, giusto. Il figlio.
L’unica cosa che davvero non torna del film sceneggiato da Mamet è che gli americani facciano la guerra per finta. Quando, in realtà, loro la fanno sempre vera e producono film ad alto budget per giustificarla.