LA DECISIONE DELLA CONSULTA SUI REFERUNDUM. ALCUNI CHIARIMENTI D’OBBLIGO

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I paladini del bene gridano allo scandalo per la decisione della Consulta, che ha dichiarato inammissibili i referendum sull’eutanasia e sulla cannabis. La verità è che i quesiti – così ci spiega l’avvocato Luigi Luccarini – erano formulati dai promotori in maniera tale da poter solo essere respinti. La loro presunzione di combattere sempre e immancabilmente per il progresso e per la civiltà è eguagliata unicamente dalla loro desolante ignoranza in materia di diritto.

Premessa.

Il sistema referendario italiano prevede una finestra molto ristretta di intervento diretto della volontà popolare nell’attività legislativa.

L’unica facoltà concessa ai cittadini è quella di abrogare con il loro voto una norma vigente, senza però poter intervenire poi sulla regolamentazione della materia disciplinata dalla disposizione sub judicio populi. Con la conseguenza che ai promotori della proposta referendaria è imposto di presentare un quesito che indichi con precisione letterale le parti dell’articolo di legge che si intende far cancellare. Un lavoro tecnico e al tempo stesso creativo, che richiede una profonda conoscenza del diritto.  

Con l’ulteriore conseguenza che la Corte Costituzionale, quando giudica sull’ammissibilità dei referendum, è obbligata valutare se l’eventuale espunzione della (parte di) norma oggetto del quesito generi un inammissibile vuoto normativo, ovvero produca conseguenze in contrasto con principi fondamentali del nostro ordinamento o, ancora, renda incoerente e inapplicabile l’intero testo di legge in cui è ricompresa (come è successo per il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati).

Data la premessa vediamo cosa è successo ieri.

La Corte, presieduta da Amato, che tanti difetti avrà, ma certo non quello di non conoscere la materia costituzionale e le sue implicazioni, era chiamata a giudicare l’ammissibilità di un numero esteso di proposte referendarie. Indice, quest’ultimo di sempre minor serietà nell’utilizzo di uno strumento ormai divenuto più che altro un mezzo di lotta politica, piuttosto che – come era stato pensato –  esercizio di sovranità del popolo, nei termini di una volontà consapevole, non certo alla stregua di slogan di piazza.

Ebbene Amato, nella conferenza stampa successiva alle decisioni della Corte, è apparso a dir poco imbarazzato nel dover spiegare i motivi per cui i referendum più attesi erano stati tutti bocciati. E lo ha fatto di fronte ad un platea di giornalisti incapaci di formulare domande degne di quelle spiegazioni. Perché forse neppure le hanno capite, o magari perché in quel momento qualcuno di loro si è reso conto della pessima figura rimediata dai promotori, finora sostenuti senza riserve, e perciò erano più che altro preoccupati di come riferire ai lettori le ragioni di questa rovinosa sconfitta. Perché tale è, indubbiamente, per quell’area culturale che mischia saccenza ad ignoranza, che di quest’ultima si nutre e la propaga, in modo che diventi lo standard intellettuale dell’italiano medio.

Qualcosa, però, questi giornalisti dovranno scrivere da oggi. E, a meno che non pensino di attaccare la Corte (ne dubito) o di mettersi finalmente a studiare (dubito ancor più), sono curioso di vedere gli specchi su cui si arrampicheranno.Anche se Amato e la Corte hanno lasciato loro ben poche vie di uscita.

Prendiamo infatti il referendum pomposamente definito della “cannabis legale”. La norma interessata dalla proposta di abrogazione, l’art. 73 DPR 309 è in vigore dal 1990 e, dunque, può ben considerarsi, per la sua durata, storica e quasi immanente nel nostro ordinamento. L’idea dei promotori era quella di rendere legale la coltivazione di piantine di cannabis per uso personale, vale a dire l’ipotesi che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno già, con la sentenza del 16 aprile 2020, n. 12348, dichiarato penalmente irrilevante. Tanto sarebbe bastato per escludere qualsiasi utilità a questo referendum: ma da tempo, come già detto, lo strumento viene utilizzato per altri scopi. Come quello di acquistare visibilità agli occhi di un certo pubblico, fargli credere che è in corso una “battaglia di civiltà e di libertà”, accreditarsi come paladini dell’uscita del paese “dal medioevo” ed altri bla, bla, bla.

Il punto è che questo, visti i tempi, sarebbe stato un peccato persino veniale dei promotori, non fosse che il quesito propagandato per mesi, firmato da un numero enorme di persone, era improponibile in quanto la richiesta abrogazione della parola “coltiva” dal 1° comma dell’art. 73 avrebbe comportato la depenalizzazione della relativa attività per tutte le droghe previste nella Tabella I allegata alla legge (oppiacei, foglie di coca, allucinogeni) rendendo possibile far diventare l’Italia una specie di nuovo Afghanistan con sterminati campi di papavero assolutamente legali.

Nessuno se ne era accorto? Può darsi. Fatto sta che Amato, senza neppure calcare la mano sulla questione, ha comunque tenuto a precisare che il referendum proposto con quel quesito  doveva considerarsi “sulla droga” e non “sulla cannabis” (peraltro ricompresa nella Tabella II) e che l’inammissibilità derivava in primo luogo dal fatto che l’eventuale vittoria del sì avrebbe comportato la violazione da parte dell’Italia di innumerevoli trattati e norme internazionali. Dubito, però, che questa precisazione gli basterà per frenare la pioggia di critiche già precipitatagli addosso il giorno prima, in seguito all’annunciata bocciatura dell’altro referendum “social”, quello sull’eutanasia.

Il cui quesito in realtà, a prescindere da come la si pensi sull’argomento in termini etici, tutto riguardava tranne che l’ipotesi del suicidio assistito, che pure era stata la parola d’ordine dei suoi promotori, vertendo sulla possibile abrogazione della norma che punisce l’omicidio del consenziente, vale a dire l’art. 579 del codice penale. Che, a seguito all’eventuale vittoria del sì, avrebbe assunto questa forma:

Chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui è punito con le disposizioni relative all’omicidio se il fatto è commesso:

1. contro una persona minore degli anni diciotto;

2. contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti;

3. contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno.

Non ci vuole molto a capire che in questo modo si sarebbe finito per rendere legale l’omicidio – perché di questo si tratta, non della partecipazione a un suicidio altrui – di una persona dai 18 anni in su che in qualche modo avesse mostrato, anche per un momento, l’intenzione di morire, magari soltanto perché un po’ depresso.

Una tale assurdità, sul piano logico e giuridico, che ci si dovrebbe chiedere come sia possibile sia stata proposta, accompagnata addirittura da oltre un milione di firme. Ma è una domanda inutile, perché è chiaro che le persone che hanno firmato, ed oggi protestano per la dichiarata inammissibilità di questo referendum, non pensano, non ragionano, non sanno e non vogliono sapere. E i loro maestri sono quelli che approfittano della loro ignoranza e nulla fanno per contrastarla, anzi la favoriscono sempre più, perché di essa si nutrono.

E con la saccenza che li contraddistingue, oggi, domani e dopodomani torneranno a parlare delle loro “battaglia di civiltà e di libertà”, ad autopromuoversi come paladini dell’uscita del paese “dal medioevo”, e  bla, bla, bla assortiti.

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