IL GREEN PASS UE NON LIMITA GLI SPOSTAMENTI, LI FACILITA. È PROPRIO COSÌ?
Abbiamo deciso di rispondere a una delle obiezioni più frequenti che capita di leggere e ascoltare da parte di chi difende il Green Pass UE: non limita gli spostamenti, li facilita. Un’analisi attenta rivela l’esatto contrario.
Abbiamo deciso di rispondere ad alcune critiche rivolte verso il nostro canale questo pomeriggio da alcuni utenti della nostra chat a seguito della pubblicazione del lancio di agenzia Adnkronos, nel quale si annunciava la decisione da parte della Commissione Europea di estendere di un anno il certificato Covid digitale UE. Più precisamente dal 30 giugno 2022 al 30 giugno 2023.
Premessa teorica
Iniziamo dicendo che l’aver introdotto un certificato digitale, che prima del 1° luglio 2021 non esisteva e che ora verrà esteso fino a giugno 2023, è già di per sé una novità rispetto al passato. Prima non c’era, adesso c’è. Non solo: è una novità che, per definizione, introduce una serie di discriminazioni rispetto al passato. Per circolare liberamente all’interno dell’Unione, infatti, oggi viene richiesto di esibire un attestato che un tempo non veniva richiesto. Naturalmente, usando la retorica del bicchiere mezzo pieno, stampa e governi hanno buon gioco nel creare l’illusione che un simile certificato faciliti gli spostamenti dei cittadini all’interno dell’Unione, ad esempio risparmiando loro la seccatura di sottoporsi a tamponi o quarantene. In realtà, è proprio il contrario. Intanto, perché istituzionalizza la necessità del certificato come strumento richiesto per gli spostamenti, di fatto trasformando la pandemia da emergenza a condizione estendibile a piacimento dalle autorità, per non dire a nuova normalità. In secondo luogo, perché rappresenta una delle tante forme di obbligo vaccinale surrettizio adottate anche a livello nazionale per discriminare i cittadini che ne sono sprovvisti. E questo, come vedremo, lo si deduce facilmente dalla diversa durata del certificato. Basterebbe già questa premessa teorica per mettere a tacere l’obiezione secondo cui il Green Pass UE facilita gli spostamenti dei cittadini, anziché limitarli.
L’EU Digital Covid Certificate in dettaglio
Ma vediamo più nello specifico di che cosa si tratta. Come ci informa il sito ufficiale dell’Unione Europea, l’EU Digital Covid Certificate è un certificato, cartaceo o digitale (codice QR), che attesta la vaccinazione, la guarigione da COVID-19 o il risultato negativo di un test molecolare o antigenico del titolare.
Più precisamente, tale certificato ha validità di:
- 9 mesi (270 giorni) dalla data di completamento del ciclo di vaccinazione primario (ovvero doppia dose con i vaccini anti COVID AstraZeneca, BioNTech-Pfizer e Moderna e una con il monodose Johnson&Johnson). Chi è in possesso di tale requisito non dovrà essere sottoposto a ulteriori test o restrizioni (quarantena o isolamento) all’ingresso in un altro Paese. Per quanto riguarda la durata del certificato dopo la terza dose, è atteso nelle prossime settimane un nuovo atto della Commissione. Naturalmente, tale concessione si limita ai vaccini approvati a livello europeo, anche se gli Stati membri possono in autonomia decidere se accettare certificati con vaccini approvati dalle autorità nazionali o dall’Organizzazione mondiale della Sanità per l’uso di emergenza).
- 6 mesi (180 giorni) per le persone guarite dal Covid. Il certificato di guarigione non deve, cioè, essere più vecchio di 180 giorni dalla data del primo risultato positivo del test.
- 72 ore prima del viaggio per le persone con tampone molecolare negativo e 24 ore prima del viaggio per le persone con tampone antigenico rapido negativo.
Le persone sprovviste di un Green pass valido possono vedersi richiedere un test prima o dopo l’arrivo.
Da una premessa fallace può solo discendere una conclusione falsa
Come si può notare, l’EU Digital Covid Certificate si fonda sullo stesso presupposto scientificamente fallace su cui si basa anche il Green Pass italiano, ossia la presunzione di non contagiosità di chi è attualmente vaccinato con tre dosi rispetto a chi
a) è vaccinato senza la dose di richiamo,
b) è guarito dal Covid-19 e, più ancora,
c) non è affatto vaccinato.
Tale presupposto è in totale conflitto con tutti gli studi scientifici esistenti. Come ormai ripetuto fino allo sfinimento, la vaccinazione garantisce una protezione individuale da forme gravi del Covid-19 per un certo numero di mesi e con un’efficacia variabile, ma non garantisce in alcun modo né il rischio di contrarre il virus né, tanto meno, il rischio che la persona vaccinata e contagiata possa a sua volta contagiare terzi. Se questo era già abbastanza chiaro fin dall’estate scorsa con la variante delta, è oggi diventato plateale con la diffusione della variante omicron, che ha colpito in larghissima misura la popolazione già vaccinata con due o tre dosi. Se l’obiettivo di un certificato è stabilire la non contagiosità, ossia la non pericolosità sociale di un individuo, non si capisce perché una persona vaccinata sia libera di circolare liberamente senza doversi sottoporre quanto meno a un tampone. I dati epidemiologici dimostrano inequivocabilmente che i vaccinati si ammalano con la stessa frequenza dei non vaccinati. Ancora più incomprensibile appare la decisione di limitare a sei mesi la durata del certificato per le persone guarite dal Covid-19 rispetto ai nove mesi di durata di quelle vaccinate con tre dosi, quando tutti gli studi scientifici hanno ormai dimostrato che l’immunità naturale è estremamente più robusta e più duratura di quella offerta dagli attuali vaccini.
La prima conclusione che si trae da tutto ciò è che l’EU Digital Covid Certificate non ha alcuna funzione sanitaria. La diversa durata della validità appare infatti totalmente disconnessa sia dalla realtà epidemiologica che ogni giorno ci arriva tramite i bollettini nazionali sia dagli studi scientifici. Si concede un diverso status ai cittadini non in base alla loro reale contagiosità, bensì in base al numero di vaccinazioni, presupponendo che quanto più uno è vaccinato, tanto meno è contagioso e, quindi, socialmente pericoloso. Ora, se un certificato non ha una funzione sanitaria, significa che la sua vera funzione è un’altra. Più precisamente, la funzione del Green Pass UE è di natura politica e sociale. Si premia il cittadino quanto più si vaccina, lo si punisce quanto più è restio a farlo. Che poi quel cittadino sia o meno contagioso è quasi marginale. Dite che questo non rappresenta già di per sé la premessa di un sistema basato sul credito sociale? Beh, liberi di crederlo, a noi sembra invece di sì.
Altra osservazione. Se il Green pass “continua ad essere una misura eccezionale”, come ha affermato oggi il portavoce Christian Wigand, perché mai si è deciso di estenderlo fino al 30 giugno 2023, proprio nel momento in cui i contagi sono in calo in tutta Europa e molti paesi hanno già rimosso o allentato le restrizioni? Se, come dice Wigand, “non è possibile determinare ora l’impatto di un possibile aumento dei contagi nella seconda metà dell’anno”, allora perché estenderlo già al oggi al 30 giugno 2023 e non farlo decadere il 30 giugno 2022 come inizialmente previsto, salvo eventualmente reintrodurlo un domani, laddove si verificasse una nuova ondata?
No, non ci siamo. Non veniteci a raccontare che il Green Pass UE facilita la circolazione perché una simile affermazione va contro ogni logica e contro ogni evidenza scientifica. Ma anche contro gli stessi dati sul turismo pubblicati da Eurostat, secondo cui a ottobre 2021 il turismo all’interno dell’UE era ancora appena 2/3 quello di ottobre 2019 nonostante l’imponente campagna vaccinale attuata da tutti i Paesi membri. Paesi fortemente dipendenti dal turismo come l’Italia, in particolare, hanno sofferto più degli altri, come si evince dalla tabella.
Fa sorridere, dunque, leggere che “il certificato COVID digitale dell’UE è stato un successo e continua a facilitare i viaggi in sicurezza per i cittadini di tutta l’Unione europea in questi tempi di pandemia”, come la Commissione afferma nel suo comunicato stampa dello scorso 21 dicembre. I numeri la smentiscono. È quanto meno illusorio pensare che il turismo e gli spostamenti possano tornare ai livelli pre-Covid estendendo fino a giugno 2023 le norme relative al certificato COVID digitale dell’UE. Se davvero l’obiettivo fosse quello di facilitare la circolazione degli individui, l’unica opzione logica e scientificamente valida per raggiungerlo sarebbe quella di abbattere del tutto il Green Pass. O, quanto meno, di non estenderne la durata di un altro anno. E se davvero l’obiettivo ultimo fosse di natura sanitaria, ossia contenere la diffusione di nuove ondate e varianti, non si capisce perché non optare per un semplice attestato di negatività (tampone), magari associato alle consuete misure di mitigazione già ampiamente usate fin dai primi mesi del 2020, una volta dimostrato che con l’80% della popolazione vaccinata non si è riusciti a raggiungere l’immunità di gregge e a fermare i contagi.
E non è che l’inizio
La verità è che il Green Pass UE si inscrive a pieno titolo nel progetto di identità digitale perseguito da tempo dall’ENISA (Agenzia dell’Unione Europea per la sicurezza informatica). In particolare, si lega al progetto del Portafoglio di Identità Digitale (EDI) annunciato dalla Commissione europea nel giugno 2021 e già introdotto da Ursula von der Leyen nel Discorso sullo stato dell’Unione il 16 settembre 2020:
“Ogni volta che un sito web ci chiede di creare una nuova identità digitale o di accedere comodamente attraverso una piattaforma importante, in realtà non abbiamo la minima idea di cosa succeda ai nostri dati. Per questo motivo, la Commissione proporrà presto un’identità digitale europea sicura. Un qualcosa di cui ci possiamo fidare e che i cittadini di tutta Europa possono utilizzare per fare qualsiasi cosa, dal pagamento delle tasse al noleggio di una bicicletta. Una tecnologia in cui possiamo controllare quali dati vengono scambiati e come vengono utilizzati”.
In pratica, una carta di identità digitale sotto forma di app, in cui verranno conservati tutti i tipi di documenti di una persona, dalla patente ai diplomi, dalle carte di credito ad altre informazioni, incluse quelle sanitarie (si veda in proposito l’eccellente articolo di Laura Ru di qualche giorno fa).
Se l’identità digitale europea verrà definita con ogni probabilità entro il 2022, a partire dal 2023 partiranno i primi progetti pilota per l’Euro digitale. A quel punto l’EDI (identità digitale) si integrerà con il wallet ID (il portafoglio finanziario):
Attualmente stiamo studiando le questioni fondamentali sollevate dalla sua progettazione e distribuzione [dell’Euro digitale, ndr]. Al termine di questo lavoro, nel 2023, le parti interessate, compresi i membri del Parlamento europeo, dovranno decidere la strada da seguire. Un Euro digitale darebbe alle persone l’accesso a un mezzo di pagamento semplice, sicuro e affidabile emesso dalla banca centrale, garantito pubblicamente e universalmente accettato in tutta l’area dell’euro.
(Christine Lagarde, Introductory statement at the COSAC meeting, 21 gennaio 2022)