COME DISINNESCARE IL DISSENSO CON UN PROGRAMMA TV: QUINTO POTERE di Sidney Lumet

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MancHego rilegge, a modo suo, Network di Lumet. Un film che ci dimostra come persino la devianza e il dissenso, vengano sfruttati mediaticamente dal sistema per il proprio mantenimento.

Peter Finch. Morì dopo le riprese ma vinse il Premio Oscar come Migliore Attore

“Revolution Will not be Televised” cantava Gil Scott-Heron nel 1971. Ma come può un macro evento come una rivoluzione, non andare in onda in televisione?

Diverso tempo fa mi è capitato di vedere Network di Sidney Arthur Lumet e ho capito che se la “rivoluzione” va in televisione, dopo della rivoluzione non resta più niente.

Questo uno degli (innumerevoli) messaggi (non troppo) subliminali di questo indicibile filmone, citato e depredato dai videomaker (dal sottoscritto più volte) e sceneggiato da Paddy Chayefsky. Già nel lontano 1976 il plot del commediografo ci svelava senza peli sulla lingua quali siano le “forze primordiali” (per dirla come nel monologo da pelle d’oca di Ned Beatty) che stritolano e incatenano un mass media alla parzialità per statuto. Ma raga, è roba che si sa solo da cent’anni. Che severgnini se ne faccia una ragione.

Il male non è la stupidità umana come suggerisce il recente Don’t Look Up (che tanto deve a questa sceneggiatura folgorante di Chayefsky), ma la logica spietata della rete (per l’appunto il network) di rapporti e di interessi produttivi, finanziari e speculativi che falcidiano alla fonte qualsiasi pretesa di neutralità e, di conseguenza, qualsiasi illusione democratica. In comune, il prodotto di McKay e quello di Lumet hanno il tono satirico e pungente dei dialoghi frizzanti e sagaci e, soprattutto, una critica feroce sia del mondo dei media, sia dei loro fruitori disumanizzati. Noi.

Perché tra di noi c’è un’intera generazione che non ha mai saputo niente se non attraverso la tv”.

Sappiamo quanto questa frase sia oggi tragi-comicamente vera. La tv è un circo, un carnevale di finzione, dice il “profeta pazzo dell’etere” al suo pubblico. E non appena termina il monologo, sviene a terra come un Jucas Casella, con la musica che sale e gli applausi scroscianti. Perché Network è pure ironico, sebbene incastrato in una regia da film d’inchiesta.

Prodotto della Hollywood dei bei tempi inesorabilmente andati, Network è un trattato di critica sociologica applicato a un’emittente televisiva (mass-mediologia pura, intesa come analisi dei rapporti di produzione) che senza alcuna motivazione valida è stato tradotto in italiano in “Quinto Potere”. Un po’ perché è una sorta di sequel ideale di Quarto Potere di Orson Welles, un po’ perché in Italia dall’alba dei tempi persiste questa antica tradizione di tradurre titoli a cazzo.

Non solo grandiosi monologhi che tolgono il respiro (su tutti quelli di Peter Finch o di William Holden) che parlano della società di ieri, di oggi e di domani senza invecchiare di un minuto. Non solo personaggi squisitamente paradossali, “umanoidi” drogati di share fino all’orgasmo (letteralmente) e felicemente votati alla nevrosi di cui il ruolo interpretato da Faye Dunaway è il più magnifico (e mostruoso) esempio. “Tutto ciò che voglio dalla vita è un indice di 30 e un alto gradimento”.

Faye Dunaway in una celebre scena del film

Una trama geniale

Ma è anche e soprattutto una trama audace e strutturata che tiene il tempo come un orologio svizzero. La pellicola si sviluppa intorno alla figura di uno stimato anchorman di un telegiornale, Howard Beale, sul punto del licenziamento dopo quindici anni. Depresso, alcolizzato, in crisi di nervi e con un indice di gradimento in picchiata che manco chicco mentana. “Ero uno di quelli seduti alla scrivania del ‘sapiente spassionato’ che riferisce con apparente distacco la parata di pazzie che costituiscono la cronaca”.

In una delle sue ultime apparizioni il conduttore si cala whisky a caraffe come se fosse Boris Johnson e sbrocca in diretta annunciando che si suiciderà in favore di telecamera. L’imbarazzante incidente fa infuriare i piani alti, ma crea aspettativa nel pubblico e risonanza mediatica. Così l’ad Frank Hackett (Robert Duvall) e Diana Christensen (Dunaway), contro le reticenze del vecchio ma integro direttore della sezione notizie Max Schumacher (Holden), decidono di “rischiare”. Perché il rischio è l’unica vera regola negli affari.

La rete, allora, offre a Beale un nuovo programma-baraccone in cui, tra maghi e indovini, possa dare sfogo alla genuina rabbia che pervade i suoi discorsi e che tanto sembra piacere agli spettatori, che non bisogna mai e poi mai lasciare annoiare.. “Gli americani sono incazzati. Dobbiamo dar loro programmi incazzati” tuona la favolosa Dunaway e viene da pensare alle riflessioni sulla stimolazione della rabbia da parte dei media per non perdere l’attenzione del pubblico, di cui parlava David Foster Wallace in alcuni suoi saggi sulle aragoste (se non sbaglio).

Poi, come in ogni storia che si rispetti, qualcosa va storto. Il prorompente successo iniziale del “profeta pazzo dell’etere” rilancia la carriera e persino l’aspetto dell’alcolizzato e malandato Beale che riacquista eleganza e contegno. L’indice di gradimento come elisir di lunga vita, ma anche come discernimento tra accettazione e discriminazione. L’anchorman, però, non si limita solo ad arrabbiarsi e a rivelare scomode verità. Quello di Howard Beale è un risveglio spirituale. Pura follia, in un universo senza valori e orgogliosamente nichilista come quello televisivo che travolgerà tutti come uno tsunami.

Disinnescare il dissenso

Ora, però, vorrei tornare alla canzone “Revolution will not be televised” di Gil Scott-Heron e sul perché la VERA rivoluzione non andrà in onda sul mainstream.

A ben guardare, uno dei messaggi più annichilenti di Network è proprio il mostrarci come i media abbiano il potere di inglobare le idee più sovversive e “devianti”, prosciugarle dei contenuti e darle in pasto all’audience in forma di uno spettacolare guscio vuoto.

Dunque, persino le invettive del profeta pazzo, per quanto pericolose e anti-sistemiche, vengono tollerate in nome del Dio audience. Ma solo perché, come osservava il filosofo Herbert Marcuse, il sistema dei media ha acquisito la capacità di riassorbire le forme culturali che gli si oppongono, disinnescandole.

La celebre scena del monologo di Peter Finch con cui lo showman convince migliaia di spettatori a urlare fuori dalla propria finestra uno slogan emozionale, rappresenta, in modo desolante, proprio questo.

L’unica “ribellione” che ci concediamo é spudoratamente incatenata al nulla osta dei media. È una ribellione indotta, un false flag. Prova ne è la scena che vi metto qui sotto, in cui Beale sfogando la propria frustrazione davanti alle telecamere autorizza i telespettatori ad essere incazzati. Ma invece di innescare una miccia e una reazione di massa, incanala la loro rabbia in una sorta di flash-mob che disinnesca la rabbia stessa.

Fonte Youtube

É così che, anziché andare in strada a lanciare molotov contro il Parlamento, noi #restiamoacasa a cantare dai balconi come dei luigidimaio. I nostri pensieri e le nostre emozioni sono suggerite dai media. E, allo stesso tempo, il nostro stesso dissenso diventa reale solo quando passa dal messaggio ipnotico del mainstream. Dunque, sembra suggerire, l’idea stessa che abbiamo di sollevazione o di protesta è incatenata a quella che il sistema mediatico ci fornisce su un piatto d’argento. Avvelenato. Perché la tv infetta. “Sei la tv incarnata. – dice William Holden alla Dunaway in un struggente dialogo- Tutto quello che tocchi, muore”.

E quando guardi fabiocazio capisci quanto sia dannatamente vero.

Una tesi che torna più volte durante il film. Non a caso viene data profonda visibilità al personaggio che scimmiotta Angela Davis, l’attivista americana per i diritti civili con l’afro più iconico di sempre. La referente del partito comunista con la scusa della visibilità viene convinta a dare l’assenso per un (anticipatorio) docu-reality su alcuni gruppi terroristici affiliati. E nel momento stesso in cui scende a patti con le televisioni liberiste, si ammala per sempre, venendo risucchiata in una logica puramente mercantilista. Idem dicasi per i terroristi col vizietto del selfie che in un minuto si trasformano nella mano armata del sistema che dovevano combattere. Praticamente la storia di pasqualebacco.

Forse perché, quando entri nel business, poi è il business che entra in te e non ne esce più.

O forse perché la tv (o meglio i media), come dichiara il profeta pazzo Howard Beale, è la “più spaventosa forza di questo mondo senza Dio e Dio non voglia debba cadere nelle mani sbagliate”.

Ecco.. Campa cavallo.

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