I FINTI PALAZZI D’INVERNO E L’ETERNO GIOCO DEL POTERE

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Se il 9 fossi stato a Roma avrei fatto parte delle decine di migliaia di manifestanti che non hanno partecipato all’assalto alla sede della CGIL, per diverse ragioni.

 
 
 

Primo. Odio lo squadrismo come odio la provocazione gradassa e ottusa dei bulli. Né mi riconosco nella cultura dell’atto dimostrativo fine a sé stesso, dello shock simbolico che mima una presa del Palazzo d’Inverno destinata a invecchiare più in fretta che una storia di Instagram. Non mi piace il gioco delle zone rosse preconfezionate né ho bisogno di abbattere monumenti per capire da che parte sto. E soprattutto so che quello – da corso Italia a Capitol Hill – è sempre il copione del potere. Usuratissimo e prevedibilissimo: da mesi è in corso un balletto di provocazioni per far deragliare nella violenza un movimento trasversale e pacifico. E non mi stupisce che magicamente sia ricomparso quel corpuscolo chiamato Forza Nuova. Cioè, in sintesi, quel manipolo di nomi ultranoti, da Fiore in giù, che – mentre tutte le istituzioni da anni annunciano tolleranza zero contro il fascismo – stranamente può ancora circolare indisturbato per le piazze, organizzarsi e realizzare scorribande teppistiche profittando del malcontento e della rabbia popolare. Mi chiedo il perché. Con tanto di energumeni che esagitano pugnetti di loro pari e di sprovveduti al traino, tranquilli nonostante il daspo in tasca e le forze dell’ordine a un tiro di schioppo. Com’è stato possibile?

 
 
 

La domanda non è retorica. Anzi, pensavo se lo chiedesse pure quella mitica sinistra del cuore e della memoria, che però ultimamente soffre di improvvise amnesie e si lascia rubare le battute da Salvini. Al quale – imbufalito per il colpo gobbo in prossimità dei ballottaggi – è scappata la necessaria ovvietà: «A chi è convenuto che ieri una manifestazione con migliaia di persone perbene, di tutte le idee politiche, la finisse in vacca per colpa di 50 o 100 criminali e delinquenti?». E poi la stoccata in punta di microfono: «Spero che non ci sia nessun secondo fine». Spes ultima dea, ci mancherebbe. Di sicuro c’è una cosa: di sciogliere l’organizzazione fondata da Fiore – personaggio i cui titoli sono ben noti – si parla da anni, ma la pratica pare poter giungere a conclusione, tra una sera e una mattina, solo ora. Ora che, con l’occasione, sembra balenare nella mente dei Migliori anche l’idea di limitare un intero movimento – pacifico – e il suo diritto a manifestare: melius abundare no? In effetti è più facile «limitare al massimo i cortei» che non impedire a qualche solito noto di infestare le manifestazioni. Sempre in nome dell’antifascismo, sia chiaro, perché finalmente abbiamo la prova scientifica che se non vuoi il pass sei fascista: l’avessimo ascoltata, quella benedetta televisione, che lo ripete ogni giorno da mesi. Quanto alle bizzarre coincidenze notate dai complottisti, poi, si sa: esistono solo nelle commedie.

 
 
 
 
 
 
 
 

Comunque, dicevo, odio lo squadrismo, da qualunque parte provenga e qualunque sia lo straccio con cui copre le sue microscopiche pudende. Per una questione di metodi, di prassi, di valori democratici. Non perché ci sia in ballo la CGIL anziché una sede della Lega o un gazebo dei Cinque Stelle. Anzi – e mi spiace per chi ancora ci crede o ci lavora in buona fede – devo dire che la CGIL per me non rappresenta assolutamente nulla da oltre vent’anni, cioè da quando ne rispedii al mittente la tessera (senza mai essermene pentito). E fatico a capire come ancora ci si possa ricordare che esiste. Cioè, capisco i sit-in davanti al Parlamento (dove quantomeno passano le leggi) o chi s’accampa notte e giorno fuori dai cancelli di una multinazionale in procinto di falcidiare l’organico. Capisco anche la valenza simbolica di alcuni luoghi ma, sinceramente, la CGIL di cosa dovrebbe essere simbolo oggi? Può essere chiamata in causa, appunto, solo da chi vuole forzatamente sovrapporre alle dinamiche attuali i cliché del secolo scorso (operazione che non è né innocente né divertente). Altre ragioni, francamente, non ne vedo. Anello di congiunzione fra una “sinistra” ultraliberista che odia il popolo e la massa di salariati che deve ingoiarne le amare trovate, da decenni impegnata a campare di glorie remote mentre si fa passare sotto il naso le più varie nefandezze, la CGIL ha smesso da tempo di parlare con i lavoratori. E ha proprio scelto di non rappresentare i lavoratori non allineati alle pretese dei suoi omologhi politici: infatti nelle piazze di questi mesi, colme di lavoratori, non c’era. Il che però non ha impedito a piazze e lavoratori di esserci lo stesso, ed è questo il punto.

 
 
 

Anche farne un antagonista è troppo generoso, salvo non ci si voglia baloccare con figurine di carta. Perché ormai è poco più che un contenitore virtuale, tenuto in piedi da finanziamenti pubblici consistenti, un apparato burocratico vecchio stile e generosa visibilità mediatica. Passati i ventiquattro pollici, si scopre che per riempire una piazza come si deve le tocca faticare (a differenza dei manifestanti di ieri), che perde iscritti a litri da ogni vena e che alla resa dei conti buona parte dei tesserati ci si parcheggia per avere consulenza sulla modulistica. In realtà il grande sindacato dei pensionati galleggia – come i partiti amici – su un enorme vuoto. Non è amico dei lavoratori ma dei loro veri nemici è solo un’usurata stampella. Che gli si vuol dire? Rivendico per la CGIL il diritto di continuare a fare capriole, inchini e cabaret senza che nessuno la disturbi, per carità, come lo rivendico per la bocciofila di quartiere. E per me rivendico il diritto di ignorare questa strana entità che mi ignora, con piena felicità di entrambi.

 
 
 

Insomma, che i violenti se la vedano coi giudici, ma gli altri – i tantissimi altri – meritano risposte. Non esasperanti riti collettivi dove organizzazioni gonfie di logiche neoliberiste fanno il pugno chiuso per esorcizzare lo spirito delle camicie nere degli anni Venti. E per evitare accuratamente di vedere che frattanto il mondo è divorato da un tecnofascismo feroce che si nutre anche delle loro liturgie. Con il coro mitragliante dei media, da mesi ansiosi di poter criminalizzare una piazza che chiede diritti, tagliando però le immagini di manifestanti inermi brutalmente caricati, o di esagitati stranamente somiglianti a infiltrati. Sarà, ma a me talvolta torna in mente il 2001.

 
 
 

So da molto tempo che il fascismo non è una farsa rievocata da qualche teppista che vorrebbe rianimare il proprio elettroencefalogramma con grotteschi nostalgismi (e vien lasciato incredibilmente libero di fare ciò che vuole). Non è riducibile all’ossessione rievocativa di chi ha bisogno di scaricare testosterone in eccesso. No: chiamo fascismo quell’opzione autoritaria e distopica che è sempre a disposizione del potere. E per certo lo è in quella mistura di disprezzo, avidità e sangue che oggi governa i processi globali, blindati da oligopoli finanziari privi di scrupoli, da multinazionali, grandi banche d’affari e giganti della speculazione finanziaria. Che schiaccia le ossa in nome dell’austerità, delle riforme, della tecnologia o perché bisogna essere responsabili o perché ce lo chiede l’Europa e altri mantra progressisti cari anche alle appendici sindacali dei Dem di tutto il mondo. Perciò diffido di chi vuol portarmi dove il potere vuole che vada, che sia una sede da assaltare o quel loop corrosivo di contrapposizioni false che serve a pochi per stare comodi sulle schiene dei molti.

 
 
 

Marco Rizzo denuncia una nuova strategia della tensione, e chissà se ha ragione. Una cosa però mi pare chiara: mai come oggi la forza della piazza è nella piazza. Scrive l’amico Filippo Nesi: «Draghi ieri sera ha chiamato Landini al telefono. La scusa era prestare solidarietà per l’assalto alla CGIL. Il vero motivo era mobilitare i sindacati a sostegno del suo governo. Draghi ne ha bisogno. Non si aspettava di vedere il popolo in piazza contro di sé». Forse, cioè, siamo al punto in cui l’unanimità artificiosa raggiunta con la paura e l’isteria si sta sgretolando, per far emergere una parte importante (e potenzialmente crescente) di società che sotto lo strato di ghiaccio non ha smesso di essere viva. E che può imbrigliare gli equilibri di un blocco politico più fragile di quanto non appaia. L’unica cosa che serve è esserci: l’unica arma di chi oggi critica Draghi (perché di questo si tratta, non di presunti antiscientismi da rotocalco) è forse anche la vera chiave. E serve che ognuno protesti come può e come è lecito nella sua funzione professionale e sociale, dai trasporti alla logistica e via dicendo, auto-organizzandosi e auto-rappresentandosi come parte di una categoria resistente agli schemi costringenti e ai pallottolieri virtuali. Chiamandosi all’esistenza da sé, nel vuoto di rappresentanza mostruoso che si è venuto a creare. L’assalto vero è a una logica economica iniqua, a una logica sociale escludente. E non è uno spettacolino vacuo e strumentale, che trasforma le vittime in carnefici. Può poggiare solo su un diritto, il più universale e profondo: quello che contempla la libertà di scelta e di critica, la libertà di sapere e di deliberare, la dignità, la non discriminazione, il rispetto della persona. Quello che, per quanto infastidisca certi poteri globali, resta pur sempre la ragione autentica di ogni resistere.

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