Un classico è un libro che parla sempre al presente, che fornisce cioè attraverso il tempo risposte che non invecchiano mai. La ribellione delle élite, libro postumo di Cristopher Lasch, è già un classico dei tempi moderni: scritto quasi trent’anni fa, ci parla del passato, del presente e del futuro. Il titolo, lo si comprende, è modellato su La ribellione delle masse di Ortega y Gasset, ed è molto più che un semplice pamphlet di natura sociologica. Lasch, grande conoscitore della storia americana, ricostruisce il percorso della democrazia del suo Paese e della sua crisi e mette in luce il cambiamento anche antropologico che ha investito la società occidentale e le sue classi dirigenti.

 
 
 

L’analisi si muove su due binari paralleli, quello del ruolo e del profilo delle élite e quello dello stato di salute della democrazia, che sono interconnessi. All’origine della repubblica americana (si sottovaluta spesso che questa nacque in un’età di re e imperatori, quando era forma istituzionale relegata a esperimenti di breve periodo o a piccole comunità) le élite erano profondamente radicate nel territorio e nella società. Riconoscevano di non essere altro rispetto a quel mondo, ma di avere il compito di trasmettere benefici ereditati dai propri antenati. Vi era in sostanza un legame fra passato, presente e futuro di una comunità in cui le classi dirigenti riconoscevano il debito nei confronti di chi li aveva preceduti e la necessità di lasciare il segno per chi sarebbe venuto dopo. Questo è ancora oggi evidente da molti nomi di biblioteche, musei, parchi, università, orchestre che sono presenti in molte città americane: essere parte della classe dirigente imponeva dei doveri civici, fra cui quello della restituzione.

 
 
 

A partire però dagli ultimi decenni del ventesimo secolo, le élite si sono isolate dalla gente comune e si sono divise in fiere battaglie ideologiche su temi marginali. Anche la loro composizione è cambiata: si compone dei manager e di tutte le professioni che producono e manipolano l’informazione. Le nuove élite non sono radicate, ma cosmopolite, per loro non muoversi significa ridurre la possibilità di ascesa sociale. Invece che integrarsi con la realtà che li circonda, con la Middle America (ma il discorso si applica anche all’Europa) ne provano disprezzo perché la ritengono tecnologicamente arretrata, reazionaria, repressiva e retriva. Non abitano nessun luogo perché il loro luogo è il bazar globale, il loro multiculturalismo si traduce in una visione turistica del mondo in cui la cucina, la musica e i vestiti esotici sono goduti senza alcun impegno.

 
 
 
 

Con le élite è cambiata anche la concezione della democrazia. Alle origini della democrazia moderna, sperimentata con continuità per la prima volta proprio negli Stati Uniti, vi era l’ideale dell’autogoverno, tipico delle piccole comunità che hanno segnato la trasformazione degli americani da coloni in cittadini. Per questo si riteneva fondamentale, per lo sviluppo della democrazia americana, la massima accessibilità dei cittadini alla proprietà privata: i costumi democratici, come la fiducia in se stessi, il senso di responsabilità, la capacità organizzativa, si acquisiscono meglio nell’esercizio di un commercio o gestione di una piccola proprietà. Meglio è distribuita la proprietà, meglio funziona la democrazia. Non è un caso che gli americani nella prima metà dell’Ottocento vedessero di malo modo la società europea basata sulla divisione del lavoro e sull’esistenza di una classe salariata permanente, perché questa rendeva impossibile una solida uguaglianza delle condizioni di partenza che è fondamentale per ogni società democratica.

È difficile, per chi non conosce la storia americana, riconoscere questi concetti, perché paiono antitetici rispetto a quello che riceviamo quotidianamente da oltreoceano in tema di valori. Originariamente, però, l’uguaglianza nel pensiero americano corrispondeva con l’idea che fosse possibile incontrarsi su un piede di parità con persone di ogni genere, di avere accesso alle grandi correnti di opinione e di esercitare diritti e doveri della cittadinanza. Per questa ragione il termine classe lavoratrice aveva negli Stati Uniti un significato molto più ampio di quello europeo. Faceva parte della classe lavoratrice chiunque vivesse del proprio lavoro, dal più ricco dei commercianti al più povero degli artigiani, e a questa classe se ne opponeva una e una soltanto, composta parimenti da senzatetto che da rentiers, cioè da chiunque non lavorasse per vivere. Agli occhi americani, la distinzione europea in classi finiva per creare una netta separazione fra sapere e lavoro materiale e questo non poteva che costituire un anatema per chi poneva quale promessa centrale della sua organizzazione sociale la democratizzazione dell’intelligenza. Nell’accezione che le diede Thomas Jefferson, la società democratica è una comunità di piccoli proprietari capaci, responsabili e in grado di autogovernarsi, in cui lavoro manuale e intellettuale non sono alternativi, ma in continuità.

In questo tipo di società, élite e popolo si incontrano su una base di parità, perché il suo scopo è innalzare il livello generale di competenza. Senza una specializzazione del sapere che è accessibile a pochi, il dibattito è centrale: è così che la democrazia svolge la sua funzione educativa, perché ci si spinge a difendere le nostre opinioni e a discutere sulla base di esperienze. Al centro fisico di ogni società democratica stanno quelli che Oldenburg chiamava “posti terzi”, cioè luoghi di incontro informali non segregati, in cui posizioni diversissime stanno fianco a fianco e discutono su un pari livello, come può essere una piazza o un bar.

 
 
 

Contrariamente a questo ideale democratico, è andato affermandosi l’ideale meritocratico, per cui l’uguaglianza coincide con la mobilità sociale, intesa in senso economico. Questa interpretazione della mobilità sociale si è però affermata come unanime (tanto da non essere oggi messa in discussione da nessuno) solo quando la gerarchizzazione della società e la separazione del lavoro sono state compiute. La classe lavoratrice non era più una vasta maggioranza di cittadini capaci di badare a se stessi, ma una classe permanente di salariati per cui la definizione di opportunità era solo la fuga da questa. L’uguaglianza non ha più significato l’innalzamento della competenza generale, ma promozione di un più vasto reclutamento delle élite: se opportunità finisce per significare l’accesso ai posti di maggiore considerazione si instaura il regno della specializzazione, che è l’antitesi della democrazia. La stessa democrazia si trasforma nella sua parodia, cioè nella meritocrazia che sostituisce all’aristocrazia della ricchezza, l’aristocrazia del talento.

 
La meritrocrazia offre un’opportunità teorica di avanzamento a chiunque abbia talento, ma la mobilità sociale non mette in discussione l’influenza delle élite: semmai le aiuta e le rafforza, diffondendo l’illusione che sia fondata solo sul merito. Così, le élite non riconoscono alcun obbligo verso i loro predecessori e verso le comunità che le sostengono. Parimenti con questa interpretazione, le idee dominanti sulle caratteristiche di una società democratica sono state radicalmente riformate.
 

Come sosteneva con vigore Walter Lippman negli anni Venti, i problemi di contenuto andrebbero risolti da amministratori competenti e altamente informati. Per Lippman non esistevano più le condizioni della teoria democratica originaria: società era diventata troppo complessa per avere cittadini in grado di esprimersi. In questa società la verità può nascere solo dall’indagine scientifica disinteressata, mentre tutto il resto è ideologia. Il dibattito pubblico non va quindi espanso ma circoscritto e il ruolo informazione non può essere quello di stimolare la discussione, ma di renderla inutile: le discussioni avvengono infatti dove non ci sono affermazioni affidabili, mentre il ruolo dei media è proprio quello di veicolare solo affermazioni affidabili. Non originata più dalle necessità del dibattito pubblico, l’informazione è però irrilevante o manipolativa perché è originata da qualcuno che intende promuovere qualcosa o qualcuno (un prodotto, una causa, un politico, un funzionario). Quando le parole si usano solo come strumenti di pubblicità o propaganda perdono ogni significato.

Allo stesso modo, il “posto terzo” è sostituito dallo shopping mall, si preferisce la compagnia di pochi intimi o della televisione piuttosto che la socievolezza informale della strada, non si conversa più, ma si chiacchiera, nel senso che Heidegger ha dato a questa parola. Allo stesso modo le città smettono di essere comunità per trasformarsi in dei bazar, il cui lusso è scarsamente accessibile alla maggioranza dei suoi abitanti, e le comunità sono stratificate e rigidamente segregate.

A rendere dominante questo processo è stato, secondo Lasch, l’indebolimento dello Stato nazionale, incapace di difendersi dalla globalizzazione e dai conflitti etnici. La capacità dello stato nazionale di stabilire un mercato unico nei suoi confini, di imporre un sistema giuridico uniforme ed estendere i diritti politici a piccoli proprietari e ricchi mercanti esclusi dal potere sotto il vecchio regime ha creato un terreno comune e un comune quadro di riferimento senza il quale la società tende a dissolversi in una guerra di tutti contro tutti. In questa guerra, a vincere è l’aristocrazia del talento. Sembra un ideale positivo rispetto a quello dell’ereditarietà, ma è una contraddizione: le persone di talento hanno i vizi della vecchia aristocrazia ma non le sue virtù. Il loro snobismo non riconosce in alcun modo l’esistenza di obblighi reciproci tra privilegiati e masse. Sono invece indipendenti dalla società: frequentano diverse scuole, usano un diverso servizio sanitario, hanno diverse pensioni, sono estraniati dalla vita comune tanto da non sentirsi neanche parte di quella identità nazionale. Essendo la sua legittimazione basata sull’ideale del talento, la nuova classe dirigenziale deve fingere che il suo potere si basi solo sull’intelligenza. Si considera una self-made élite che deve i suoi privilegi solo ai propri sforzi e quindi non ha né gratitudine ancestrale né consapevolezza di dover affrontare responsabilità ereditate dal passato, manca degli standard di condotta coltivati di generazione in generazione. Per questa ragione è una comunità di contemporanei: i suoi membri si vedono eternamente giovani, sempre in pari alla moda (anche nel pensiero). La lealtà di questi aristocratici del talento è internazionale: hanno più in comune con loro corrispettivi di Paesi lontani che con i loro connazionali.

 
 
La minaccia all’ordine sociale democratico, che Ortega y Gasset vedeva nelle masse, arriva invece dalle élite, da quei gruppi che controllano il flusso internazionale del denaro e dell’informazione, che dirigono le fondazioni filantropiche e le istituzioni di studi superiori, che controllano gli strumenti della produzione culturale e definiscono i termini del dibattito pubblico. La lezione di Lasch è più viva che mai, e quando ci mette in guardia delle finte contrapposizioni interne alle nuove élite, che però finiscono sempre per concordare sulle questioni centrali, non possiamo che sentire la sua voce vicinissima al nostro orecchio. In italiano il libro è da tempo fuori catalogo, segno dei tempi in cui il processo che Lasch denunciava ha già raggiunto la sua apoteosi. Vale però la pena di citare una delle ultime pagine dell’opera: in un’età che si considera disillusa, l’unica illusione che resiste è quella di essere padroni di noi stessi, ma “adesso cominciamo a renderci conto dei limiti del nostro controllo sul mondo naturale”.
 
 

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