ECCO LA CRIPTOVALUTA CHE SERVE

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Secondo CoinMarketCap esistono ormai più di 7.800 criptovalute al mondo. Nuovi token spuntano ogni giorno, ognuno con una finalità e un background diverso. Quale criptovaluta potrebbe esserci utile esattamente? E quali caratteristiche dovrebbe avere? Guido Salerno Aletta prova a fare chiarezza

In campo monetario e finanziario ci sono due sfide globali da affrontare: da una parte le nuove tecnologie informatiche sono in grado di modificare radicalmente la fisionomia tradizionale della moneta, ivi compresa quella creata, computata e trasferita in modo digitale a cui ci siamo ormai abituati; dall’altra, ci sono conseguenze estremamente diverse, in termini di affidabilità delle transazioni e di stabilità dei mercati, a seconda che si condivida o meno a livello internazionale un quadro di riferimento normativo che disciplini le criptovalute.

Con la consueta, impareggiabile lucidità, nel suo recentissimo Discorso al mercato, il Presidente della Consob Paolo Savona ha individuato i temi su cui ci si dovrà confrontare sia per porre rimedio alle lacune palesatesi già da tempo nella architettura istituzionale che sovraintende alla moneta ed ai mercati finanziari, sia per evitare i pericoli che derivano dal proliferare non coordinato delle iniziative nel campo della creazione di criptovalute e della gestione delle conseguenti transazioni che vengono contabilizzate su appositi registri informatici decentrati (DLT). Per tacere poi della incertezza che circonda i prodotti finanziari che in varia misura fanno riferimento alle stesse criptomonete.

C’è un primo assunto. La moneta ufficiale è un bene pubblico: non solo si fa affidamento sulla stabilità del suo valore, quanto sulla sua funzione legalmente liberatoria nei confronti delle obbligazioni pecuniarie. Se è vero che la crescente finanziarizzazione dell’economia ha portato da tempo alla creazione di prodotti sempre più sofisticati, facendo perdere alla industria finanziaria il ruolo tradizionale di “ancella” dell’economia reale, ora l’innovazione si è spostata sul piano della emissione di monete elettroniche, le criptomonete. Se vengono emesse in modo non coordinato ed accettato a livello internazionale, alimentano confusione ed incertezza in quanto non possiedono nessuno dei due requisiti di cui beneficiano le monete ufficiali. Inoltre, non solo non c’è un sistema prefissato che regola il rapporto di cambio tra le criptomonete e le monete ufficiali, ma per le loro transazioni si usano protocolli informatici, piattaforme ed infrastrutture completamente diverse rispetto a quelle che vengono impiegate per effettuare i pagamenti con le monete ufficiali, accettate e condivise a livello internazionale.

L’applicazione alla moneta delle evoluzioni tecnologiche già disponibili, in grado di garantire la affidabilità e la tracciabilità delle transazioni, sarebbe in grado di modificare la stessa fisionomia tradizionale della moneta, consentendo di distinguere nettamente il sistema dei pagamenti da quello finanziario. Savona rileva al riguardo che in questo modo si realizzerebbe il sogno del premio Nobel Hyman Minsky, quello “di porre fine alla moneta come serva di due padroni, la stabilità dei prezzi e la stabilità bancaria (o dello sviluppo reale)”. Ed infatti, prosegue, “se si disponesse la nascita di una criptomoneta pubblica, il sistema dei pagamenti si muoverebbe in modo indipendente dalla gestione del risparmio, che affluirebbe interamente sul mercato libero, cessando la simbiosi tra moneta e prodotti finanziari, affidandone la gestione in modo indipendente ai metodi messi a punto dai registri contabili decentrati e dalla Scienza dei dati”. Un sistema dei pagamenti basato su un’unica criptomoneta pubblica avrebbe come riferimento ideale il Bancor, la valuta internazionale da usare in esclusiva negli scambi internazionali che fu proposta da J. M. Keynes ai tempi di Bretton Woods.

 

C’è un primo problema, a questo punto, che pare insormontabile: l’ipotesi di un’unica criptomoneta globale minerebbe alla radice il ruolo del dollaro, che non solo è la moneta di riserva internazionale per eccellenza, ma che monopolizza in termini di volumi le transazioni di beni e servizi e la stessa formazione dei prezzi mondiali. Verrebbe intaccata l’eccezionalità statunitense e l’esorbitante privilegio del dollaro. E’ evidente che gli Usa non solo non rinunceranno mai spontaneamente al ruolo egemone del dollaro, ma difficilmente accetterebbero anche una piattaforma, condivisa con altre criptomonete, su cui avessero una influenza inferiore rispetto a quella oggi che oggi esercitano sullo SWIFT (Society for Worldwide Interbank Financial Telecommunication). Con questa, infatti, il Dipartimento del Tesoro ha raggiunto un accordo con finalità di contrasto al terrorismo che gli consente di ottenere una mole impressionante di dati relativi alle transazioni finanziarie in tutto il mondo.

In alternativa, propone Savona, si potrebbero usare poche monete nazionali criptate, legate da regole di cambio uguali per tutti. Andrebbe quindi definita in ambito Wto la questione della regolazione dei cambi, se fissi, flessibili, o aggiustabili dalle autorità nazionali. Emergerebbero finalmente i nodi relativi al regime dello yuan, in termini di circolazione, cambio e convertibilità, che non furono minimamente considerati all’atto dell’ingresso della Cina nel Wto, e che invece tanto hanno turbato i rapporti con gli Usa.

Non c’è dubbio, di converso, che le iniziative assunte da alcuni Stati, come la Cina e la Russia, in ordine alla creazione di proprie criptomonete ed allo sviluppo di piattaforme alternative a quelle che attualmente gestiscono le transazioni finanziarie internazionali, ha uno scopo difensivo ben preciso, come è accaduto anche per l’infrastruttura di accesso ad Internet. L’obiettivo è di essere indipendenti, di ridurre al massimo le pressioni e le intrusioni dall’esterno, creando sistemi ad isola.

C’è dunque una tendenza alla segmentazione anche nel settore delle criptomonete, delle loro piattaforme, dei protocolli di trasmissione e dei sistemi di criptazione delle transazioni, che replica quanto già accade nel settore del commercio internazionale per via dei dazi imposti dagli Usa alla Cina e delle misure restrittive imposte alla Russia anche dalla Ue ed all’Iran, rispettivamente a causa della occupazione della Crimea e degli esperimenti militari e nucleari. Ci si muove dunque in una direzione opposta alla globalizzazione ed alla eliminazione delle barriere tra gli Stati.

Non sono solo gli Stati a vedere con sospetto la prospettiva di istituire un insieme di criptovalute pubbliche che girino su una infrastruttura condivisa a livello globale da parte delle Banche centrali. Ancora più spinosa, infatti, è la prospettiva di incidere sul business bancario. La prospettiva di separare completamente il sistema dei pagamenti dal mondo della finanza farebbe venir meno la funzione delle banche di deposito, che vivono dell’alchimia della trasformazione delle scadenze, tra depositi di cui è garantito il ritiro a vista o con un breve preavviso ed impieghi a medio ed a lungo termine.

L’esaurimento della funzione storica delle banche di deposito, anche a prescindere dalla introduzione delle criptovalute pubbliche, sarebbe comunque un processo ineluttabile: l’ex Governatore della Bank of England Mervyng King, già nel 2016, tenendo conto delle grandi mutazioni conseguite alla crisi del 2008, scrisse a tal proposito un libro dal titolo assolutamente inequivoco: “The End of Alchemy”. Le banche centrali, a loro volta, avrebbero dismesso il ruolo tradizionale di Lender of last resort, per assumere quello di gestore del Banco dei Pegni bancari, erogando liquidità a fronte del deposito di asset. A tal fine, il credito dovrebbe trasformarsi in finanziamenti idonei ad essere singolarmente valorizzati secondo tecniche standard, al fine di essere offerti come collaterali alle banche centrali.

Per quanto riguarda le criptovalute pubbliche, c’è davvero da dubitare che il settore bancario possa accettare di buon grado la perdita della gestione dei pagamenti per conto dei clienti, anche se il venir meno dell’uso dell’assegno al portatore ha fatto scomparire la funzione sostanziale dell’affidamento che questo presupponeva. Con il diffondersi delle piattaforme informatiche, il prelievo di contanti o il trasferimento di fondi è garantito dalle disponibilità sui conti dei clienti, con rischi solo di tipo tecnico per la banca. Si assiste quindi non solo alla costosa ed inutile moltiplicazione degli investimenti bancari in queste infrastrutture tecnologiche, ma allo spostamento dei proventi bancari dal margine sugli interessi al costo applicato su ciascuna operazione e sulla tenuta dei conti correnti.

Il paradosso è evidente: tanto più si procede con l’automazione del sistema dei pagamenti, imponendo le transazioni digitali anche per i piccoli importi di spesa, tanto più il business bancario vede profittevole questo segmento di attività rispetto alla raccolta del risparmio ed alla erogazione del credito.

L’obiettivo è comunque quello di unificare e modernizzare il sistema dei pagamenti, riconducendolo nell’alveo legale in grado di garantire la stabilità del potere d’acquisto e mantenerlo come l’unico mezzo legale liberatorio dei debiti. A questi fini, è indispensabile mantenere il monopolio pubblico sulla moneta. Ma purtroppo, secondo Savona, ci sono ancora troppe esitazioni al riguardo, nello stabilire che non possano convivere criptomonete private e pubbliche: causerebbero confusione, se non proprio disastri.

Se non ci sono mai soluzioni semplici per questioni complesse, nel caso della moneta siamo di fronte alla più impervia di tutte: si tratta della gestione del potere, quello vero.

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