L’ARMA FINALE È PUNTATA. CONTRO L’INFORMAZIONE INDIPENDENTE

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L’arma puntata sull’informazione indipendente è ben più efficace delle commissioni sulla disinformazione o delle intemerate di qualche debunker di provincia. La domanda è: saremo in grado di non farci distruggere? Per capirlo, anzitutto, dovremmo incontrarci, parlarci. Chiamare tutti i nostri lettori o ascoltatori ad essere militanti, nel senso che oggi principalmente questo termine può avere: testimoni di fatti e custodi di memorie. Perché la verità è rivoluzionaria, e ben lo sa chi vorrebbe renderla indistinguibile dalla menzogna.

Sapere che esponenti dell’intelligence USA, in conversazioni finto-riservate con i fondatori di Axios, lamentino l’uso massiccio di bot e contenuti falsi da parte di tutti gli attori geopolitici “anti-americani”, di certo non fa notizia. Il ritornello sulla disinformazione strategica da parte del nemico – Russia in testa, ma non senza rivali – risuona incessante da tempo: sarebbe sorprendente, se mai, la straordinaria resistenza di questa litania nonostante le clamorose sconfessioni che ne interrompono ciclicamente la messa in onda, ma abbiamo imparato a non sottovalutare la perversa genialità di certi meccanismi.

Il punto, piuttosto, è nel cortocircuito che brilla fra le righe del recente capolavoro retroscenistico di VandeHei e Allen. Si parla dell’intreccio di tensioni globali che, a detta dell’ex segretario USA alla Difesa Bob Gates, rischia di saturare la banda larga degli strateghi di Washington. Tanto più che “in tutti questi conflitti” – rendicontano i due giornalisti – “viene impiegata una nuova arma: una massiccia diffusione di video falsificati o completamente falsi per manipolare ciò che le persone vedono e pensano in tempo reale. Gli architetti di queste nuove tecnologie, nelle conversazioni in sottofondo con noi, dopo averci mostrato le nuove funzionalità che presto verranno implementate, hanno assicurato che anche gli occhi più esercitati alla ricerca di video falsi non avranno il tempo per rilevare ciò che è reale”.

Curioso: il nemico è là fuori, ma usa armi i cui “architetti” conversano amabilmente con due giornalisti familiari alla Casa Bianca insieme agli “alti funzionari governativi” che ispirano i loro editoriali. In realtà, ancora nulla di nuovo. Sappiamo non da oggi che il deep fake (in breve, la tecnica di sintesi dell’immagine basata sulla IA, che consente di produrre video falsi, ma iperrealistici e già oggi quasi indistinguibili da quelli veri) è una tecnologia in continuo perfezionamento (si veda il livello delle applicazioni oggi scaricabili da chiunque per due spiccioli per farsi un’idea di cosa possano avere già in mano a livelli più alti). Sappiamo anche che questi nuovi germogli del progresso fioriscono benissimo alle nostre latitudini: per anni video realizzati con tecnologia deep fake hanno allietato gli scambi fra utenti in piattaforme statunitensi come Reddit (che con molta calma ha poi preso a bannarne le derive pornografiche), per non dire che la GAN (Generative Adversarian Net), ossia la rete che ottimizza il deep learning e rende possibile il deep fake, è farina del sacco di Ian J. Goodfellow, informatico statunitense formatosi fra Stanford e Montréal, nonché del suo maestro, il canadese Yehoshua Bengio, Premio Turing 2018 e autorità assoluta in fatto di Intelligenza Artificiale.

Ovviamente Bengio, insieme a una vasta schiera di suoi colleghi, oggi depreca il cattivo uso che potrebbe essere fatto delle sue ricerche e invoca sistemi di tracciamento e controllo. Il che significa che siamo già alla fase due: dopo la creazione e l’immissione nel mercato di armi potenzialmente distruttive, il passo successivo è regolamentarne l’uso. Una foglia di fico davvero troppo piccola, però, per strumenti i cui possibili abusi “civili” – pur gravissimi – sono a dir poco collaterali rispetto a quelli di reti assai più vaste (su cui l’efficacia dei protocolli e l’incisività del contrasto dei governi sono notorie), ma anche di strutture operanti in terre incognite (a prova di Twitter Files) o delle varie centrali della propaganda di massa, con cui solitamente le maglie della supervisione algoritmica sono piuttosto larghe. Sì, è vero: cedendo alle famigerate tentazioni “cospirazionistiche”, che sovente la Storia s’è incaricata di premiare, non ci pieghiamo al dogma della “fiducia” a priori e anzi pensiamo che questa parola dovrebbe essere espulsa dal lessico della politica, dove al contrario vorremmo vedere egemoni i campi semantici della critica e della continua verifica dei fatti. Che si vuole? Sarà una nostra bizzarra deformazione, ma ci suonano abbastanza ridicoli gli allarmi lanciati da istituzioni che, al contempo, finanziano o incoraggiano la ricerca in quest’ambito. Per non dire dell’altro classico immortale: le multinazionali del Tech che, dopo aver diffuso il veleno, si propongono come produttrici (e venditrici) dell’antidoto. Così, una volta lanciato il deep-fake, lo si fa inseguire dal gemello diverso, una sorta di deep-check, in modo che chi manovra il primo si assicuri anche il controllo del secondo, immaginando poi che ciò debba rassicurarci.

Intanto solo pochi mesi fa il video di un’esplosione nei pressi del Pentagono, realizzato con queste tecnologie e rilanciato anche da importanti agenzie, ci ha mostrato quanta strada sia stata fatta rispetto ai primi giochetti su Obama o Nicholas Cage, già comunque inquietanti. Un video facilmente smentibile, certo, e tutto sommato innocuo: il Dow Jones Industrial Index, sceso di 85 punti in soli 4 minuti, è poi rapidamente risalito. Ma immaginiamo che un video con quel livello di credibilità venga vidimato dagli oligopoli che gestiscono le nostre agenzie di stampa e, di conseguenza, diramato su tutti i media occidentali. Potrebbe trattarsi, andando a caso, di Capitol Hill in fiamme (stile Project X, ma senza sovrapposizioni artigianali) o di uno squarcio urbano devastato in Ucraina (oggi, se non ne trovano, capita pure che ripieghino su foto del Donbass: almeno si risparmierebbero la fatica). O di una dichiarazione di Putin o Trump. Potrebbero essere diffusi video tali da costringere alle dimissioni politici sgraditi. O addirittura capaci di legittimare azioni militari. Certo, sono cose in buona parte già viste, ma realizzabili ora con una tecnologia che rasenta la perfezione e consente di creare qualunque cosa in modo da renderne praticamente impossibile lo smascheramento (quantomeno con gli strumenti dati ai poveri mortali, e comunque ad alto rischio di dispersione fra diatribe legali di anni). Oggi Powell non avrebbe bisogno di inscenare la pantomima delle boccette, insomma. Si potrebbe produrre un video che mostra il ritrovamento di armi di distruzione di massa nel Paese prescelto, magari con dichiarazioni di osservatori ONU per contorno. E qualche anno dopo, a cose fatte, chiedere scusa per l’errore, come fece lui.

Del resto, quale sarebbe la differenza? Diciamolo pure, a beneficio di qualche anima bella scappata per caso ai trafiletti di Repubblica o ai fact-checking di Open: quest’ulteriore evoluzione della fabbrica delle menzogne è già realtà perché già sono stati solidamente impiantati nell’immaginario collettivo i pilastri ideologici e i copioni che la giustificano. Vent’anni di emergenze continue – e quindi di fini che giustificano i mezzi – o di digitalizzazione integrale, di imposizione forzata di “verità ufficiali”, di test sul backfire effect, di perfezionamento dei monopoli informativi, di privatizzazione del dibattito pubblico via piattaforme social, per non dire delle urla sedicenti “antifa” o degli scientismi fatti in casa, a cosa sono serviti? L’implementazione dell’arma finale – per raggiungere l’obiettivo di rendere il vero indistinguibile dal falso, e quindi di neutralizzare qualunque controtendenza, rinchiudendo tutti definitivamente nell’indifferenza individualistica – va di pari passo con la penetrazione dell’IA in ogni settore delle nostre vite, e con il suo progressivo perfezionamento.

Peraltro, l’arma è puntata anzitutto contro di noi che ci ostiniamo a fare informazione indipendente. Lo sappiamo, certo, ma talvolta si ha la sensazione che questa consapevolezza venga rimossa dal nostro dibattito. Eppure è questa la vera minaccia esistenziale. Sappiamo che il nostro essere “indipendenti” riguarda al momento lo spirito e le intenzioni che ci animano (oltre al fatto di non avere conflitti d’interesse con finanziatori o sponsor), ma non ancora i contenuti, per i quali in larga parte dipendiamo dai media ufficiali. Cerchiamo di tenerci in equilibrio, certo, smascherandone dove possibile le più evidenti capriole, criticandone le palesi tendenze propagandistiche, smontandone il setting, ma non avremmo gli strumenti per affrontare, oltretutto in tempi rapidi, situazioni come quella prima descritta (e anche meno: il garbuglio sul bombardamento dell’ospedale Al-Ahli a Gaza, con la conseguente trafila di post cancellati, filmati, perizie e controperizie, anche senza deep-fake ne è l’esempio più recente).

Né durerà in eterno l’altra circostanza che oggi ci offre un certo spazio di agibilità, cioè l’esistenza di agenzie non occidentali a cui riferirci per avere fonti non pregiudicate dallo storytelling di casa nostra. Sappiamo anche, infatti, che in questa sporca guerra i buoni non esistono; che la propaganda è moneta corrente ovunque, e che anche il multipolarismo, tanto più in un mondo dominato comunque dall’IA, non è un approdo sicuro: favorisce la presenza più o meno paritaria di diversi attori, sì, ma non ne fa qualcosa d’altro che centri di potere, ciascuno con il proprio arsenale pronto all’uso. Del resto, fra le principali aziende produttrici di applicazioni con tecnologia deep-fake c’è la cinese Zao. E certo gli interlocutori di VandeHei e Allen sono spaventati non dall’esistenza di questa “nuova arma” ma dal fatto di non essere gli unici a possederla, né gli unici ad avere i mezzi per perfezionarla prima e meglio del nemico. Ci proveranno – e lo dichiarano – ma è la solita lotta contro il tempo. In mezzo alla quale, ancora una volta, stiamo noi.

Nessun equilibrio è reale e duraturo se fra i suoi poli non ve n’è uno che non faccia riferimento in alcun modo a governi o istituzioni politico-finanziarie. Potremmo noi (noi tutti: canali, redazioni, associazioni, movimenti di dissenso) essere capaci di renderci indipendenti fino a quel punto? Per capirlo, anzitutto, dovremmo incontrarci e parlarci. Stabilire prassi comuni, forme di scambio e collaborazione non solo personali, non solo occasionali. Superare qualche pregiudizio, magari. Individuare soggetti che condividono i nostri fini anche oltre i nostri confini. Creare reti internazionali di scambio di informazioni possibilmente di prima mano. Reti organiche, permanenti. Dovremmo in prospettiva a diventare quello che le agenzie di stampa potrebbero definitivamente smettere di essere molto presto. Dovremmo chiamare tutti i nostri lettori o ascoltatori ad essere militanti, nel senso che oggi principalmente questo termine può avere: testimoni di fatti e custodi di memorie. Perché la verità è rivoluzionaria, e ben lo sa chi vorrebbe renderla indistinguibile dalla menzogna.

Tutto molto ambizioso, certo. Stiamo precorrendo i tempi? Purtroppo non abbiamo alcuna possibilità di controllo sui tempi! Si può fare entro domani? No. Sia perché siamo pochi, piccoli e senza risorse, sia perché siamo ancora divisi più del necessario e del ragionevole. Ma se già oggi cominciassimo a pensarci, forse, sarebbe una gran cosa.

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