CORTE COSTITUZIONALE: DA GARANTE DELLE LIBERTÀ FONDAMENTALI A STANZA DI COMPENSAZIONE DELLA RAGION DI STATO

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Inutile commentare una sentenza prima ancora di leggerne le motivazioni, anche se a molti è apparsa una decisione già scritta fin dall’inizio. Più interessante, se mai, ricordare che la Corte Costituzionale italiana è strutturata in modo da rappresentare il vertice di un sistema “chiuso” di giustizia che, contraddicendo il postulato secondo cui dovrebbe essere amministrata “in nome del popolo”, prescinde in realtà da qualsiasi riferimento a quello stesso “popolo” e si pone in esclusivo rapporto con la sua rappresentanza politica. La pandemia ha palesato come il nostro ordinamento non sia stato in grado di fornire una vera risposta di garanzia dei diritti fondamentali, perché i tempi sono cambiati, la “costituzione materiale” vi si è adattata ed è ormai svanita la coscienza che solo affermazione e tutela delle libertà dell’individuo siano barriera contro l’idolatria dello Stato Apparato. Da organo di suprema garanzia, la Corte costituzionale è diventata di fatto una stanza di compensazione delle ragioni di Stato. Uno straordinario contributo dell’avvocato cassazionista Luigi Luccarini.

Luigi Luccarini è avvocato cassazionista titolare di studio legale in Perugia


Inutile piangere sull’esito del giudizio costituzionale di giovedì. Così come era utopia coltivare speranze di una sentenza che contraddicesse due anni di gestione di un fenomeno sanitario, giustificata con la sola apparenza di motivi medico-scientifici, ma in realtà prevalentemente da ragioni politiche ed economiche.

La  Corte Costituzionale, in fondo, è quello che è: 15 membri, 5 nominati dagli ultimi Presidenti della Repubblica Napolitano e Mattarella; 5 da un Parlamento che negli ultimi 10 anni è stato monopolio/oligopolio PD, 5 dalle Magistrature Superiori.Perciò, anche ipotizzando che questi ultimi 5 siano politicamente “indipendenti”, parleremmo comunque di una minoranza assoluta di giudici non di area PD.

Tra l’altro, nel nostro giudizio costituzionale neppure esiste la dissenting opinion, benché ogni tanto si faccia presente che “forse” sarebbe bene introdurla, non fosse altro perché è un istituto presente in molte realtà parallele dei cosiddetti stati di diritto occidentali. Ma è prevalso finora il concetto dell’unitarietà della decisione che, seppure variamente spiegato, trae pur sempre origine dal tempo in cui si riteneva che i giudici sono servitori del monarca ed assumono decisioni in nome del Re. Dunque, è assolutamente pleonastico contestare il valore spesso “politico” delle decisioni della nostra Consulta, la quale, date le modalità della sua formazione, è espressione della politica ed è perciò in qualche modo votata al mantenimento dello status quo.

Il fatto è che la Corte Costituzionale italiana è stata strutturata in modo da rappresentare il vertice di un sistema “chiuso” di giustizia che, contraddicendo al postulato secondo cui dovrebbe essere amministrata “in nome del popolo”, prescinde in realtà da qualsiasi riferimento a quello stesso “popolo” e si pone in esclusivo rapporto con la sua rappresentanza politica, con tutti i problemi che ciò comporta.

Primo tra tutti, il fatto che la durata della carica di un Giudice Costituzionale (9 anni) è quasi doppia rispetto a quella di una legislatura e quindi esiste la possibilità che questi sia portato a “difendere” il lavoro svolto dalla parte che ne ha favorito la nomina e non sia più maggioranza in Parlamento. Se poi si comprende che anche nei sistemi a costituzione rigida, come dovrebbe essere quello italiano, la cosiddetta “costituzione materiale”, cioè l’insieme dei principi e delle prassi utilizzati dalla classe politica dominante in un determinato momento storico, diventa, più che un metodo interpretativo della sue disposizioni, il modo in cui le si “adatta” al volere della maggioranza, si può comprendere il motivo per cui molte decisioni della Consulta appaiano puramente confermative dello status quo di cui si diceva in precedenza. Se non addirittura salvifiche rispetto a violazioni di principi costituzionali, sulla scorta di un brocardo inespresso, ma da sempre immanente nella nostra cultura: “cosa fatta capo ha”. Che spesso informa l’agire della Magistratura che è pur sempre composta di persone formatesi in questo humus culturale.

Il “popolo” in questo contesto è il grande assente. O forse no, visto che quel brocardo è alla base dell’educazione di moltissimi di noi e, quindi, tutto sommato lo rappresenta nella sua maggioranza. Insieme ad altri che fanno sì che molte questioni che dovrebbero essere trattate in termini più elevati (dal diritto all’integrità del proprio corpo, all’estensione di altre libertà pure definite fondamentali dalla Costituzione) finiscano per diventare oggetto di uno scontro solo apparentemente ideologico, che alla fine si risolve nella contrapposizione tra quelli che lavorano dentro lo Stato Apparato, o vivono grazie ad esso ed hanno quindi interesse a che prevalga ad ogni costo, e chi, invece, fa parte dello Stato Comunità e reclama la massima possibile indipendenza da quell’Apparato.

Non c’è modo, nel sistema attuale, di risolvere in sintesi questa dialettica che diviene di giorno in giorno più aggressiva, in certi momenti addirittura feroce.  Da qui le manifestazioni di crescente insofferenza reciproca tra i due poli e la tendenza a certe forme di autoritarismo istituzionale per risolvere questi contrasti.

Come quelle che abbiamo visto nella vicenda del vaccino Covid, a cui il nostro ordinamento non è stato in grado di fornire una vera risposta di garanzia, perché i tempi sono cambiati, la “costituzione materiale” vi si è adattata, ed è ormai svanita la coscienza che solo affermazione e tutela delle libertà dell’individuo sono barriera contro l’idolatria dello Stato Apparato, praticata nel ventennio fascista da moltissimi cittadini che in esso si identificavano e da esso traevano beneficio, e che alla fine ci portò  al disastro bellico.

I nostri Padri Costituenti avevano ben chiara la necessità di attribuire a quelle libertà il ruolo di presidio contro il ripetersi di certe derive autoritaristiche. Ma, dato che la Costituzione, come tutte le produzioni normative, non poteva che rappresentarsi in termini di compromesso tra diverse visioni del mondo e della vita, alla sua perfezione apparente sul piano della definizione dei principi non ha corrisposto un adeguato modello organizzativo che ne favorisse la sopravvivenza in termini “materiali”.

Così, si è potuti passati dall’affermare che si trattasse della “Costituzione più bella del mondo” proprio perché baluardo delle libertà dell’individuo, a consentire la massima flessibilità di quegli stessi diritti in nome di un’idea di “egemonia culturale” professata da certa parte politica.

Mentre, nel frattempo, la Corte Costituzionale, da organo di suprema garanzia, tende a diventare stanza di compensazione delle ragioni di Stato, se non addirittura dell’Unione Europea, giudicando la legittimità delle norme sottoposte al suo vaglio sulla scorta delle motivazioni che ne hanno giustificato l’adozione, più che del rispetto dei principi della Carta del 1948.

E tutto ciò accade perché il modello organizzativo della Consulta si dimostra assolutamente  insufficiente a garantirli, diversamente da quanto accade in gran parte del resto d’Europa, a testimonianza del fatto che in Italia si è abituati a riempirsi la bocca della parola “Europa” senza poi nei fatti declinarne le accezioni realmente positive.

Che poi sono quelle che i più grande giurista italiano di sempre, Pietro Calamandrei,  aveva intuito e predisposto nel suo modello di un sindacato di costituzionalità delle leggi “aperto”, che avrebbe consentito il ricorso dei cittadini alla Corte e la possibilità di disapplicazione delle norme illegittime già di parte dei giudici ordinari:

Quella sua proposta, però, non fu adottata, preferendosene una perfettamente integrata nello Stato Apparato, con il giudizio incidentale, il vaglio preventivo di ammissibilità e rilevanza da parte del Giudice remittente la questione; in uno con le modalità già di nomina dei giudici costituzionali, laddove Calamandrei auspicava avvenisse per metà su scelta della Magistratura e per l’altra metà su designazione di Università e Consigli degli Ordini degli Avvocati.

Già, gli avvocati, i grandi assenti nell’attuale consesso, come in gran parte degli organi di garanzia di rilievo costituzionale. D’altronde, chi ora lamenta strapotere giudiziario, mancanza di tutele per il cittadino, senso di oppressione dall’agire dello Stato dovrebbe capire che tutto nasce dallo svilimento della figura dell’avvocato, considerato al più un difensore di delinquenti, se non addirittura l’azzeccagarbugli di banale tradizione manzoniana, diventata però anch’essa brocardo. E quindi dai tempi di “Mani Pulite” uno degli assiomi su cui si fonda la Seconda Repubblica.

Che dopo 30 anni è diventata ciò che vediamo ogni giorno, riversando peraltro ogni nostra ansia e frustrazione nello sfogatoio dei social network, inutile cassa di risonanza di problemi che non abbiamo il coraggio di affrontare realmente per provare, finalmente, a risolverli.  

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