INFLAZIONE E DEFLAZIONE: LA LEZIONE GIAPPONESE

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Nella mischia generale generata dalla globale situazione di recessione inflattiva che l’Occidente sta affrontando, mentre alcuni analisti continuano imperterriti a suggerire la solita medicina di sempre, molti altri cercano disperatamente (possibilmente in Paesi amici) una soluzione che necessariamente rientri nei parametri dello status quo neo-liberista.
Da questa situazione emerge, tra tutti gli altri, un caso particolarmente curioso, certamente complesso ma che affascina le più brillanti menti di entrambe le sponde dell’Atlantico.

Nella mischia generale generata dalla globale situazione di recessione inflattiva che l’Occidente sta affrontando, mentre alcuni analisti continuano imperterriti a suggerire la solita medicina di sempre, altri cercano disperatamente (possibilmente in Paesi amici) una soluzione che necessariamente rientri nei parametri dello status quo neo-liberista.

Da questa situazione emerge, tra tutti gli altri, un caso particolarmente curioso, certamente complesso ma che affascina le più brillanti menti di entrambe le sponde dell’Atlantico. Si tratta del Giappone, terza economia mondiale per PIL nominale e Paese ormai trasformato, con tutti i limiti del caso, a partner di prima classe occidentale, tanto da rientrare ormai da diversi decenni nella definizione vera e propria di “Occidente”.

Il Giappone è un Paese dalle dinamiche estremamente complicate, che molto spesso in Occidente (in Europa soprattutto) viene frainteso o mal interpretato. Molto spesso si attribuisce il boom economico giapponese degli anni ’60-’70-’80 al capitalismo laissez-fairista capitanato dalla scuola di pensiero liberista, che ha il suo fulcro nell’Università di Chicago. In realtà, il Giappone è rimasto saldamente ancorato alla tradizione collettivista presente in larga parte di tutta l’Asia e ha affiancato questa tradizione al capitalismo, creandone una variante che ha dato vita a fenomeni specificamente giapponesi, come ad esempio le keiretsu.

Capire questo è un punto di partenza propedeutico per capire anche, ad esempio, perché in Giappone l’inflazione non sia schizzata alle stelle come ha fatto pressoché in ogni altra parte dell’Occidente negli ultimi sei mesi, come si chiede chi sta cercando senza successo una risoluzione (ma all’interno del paradigma) del problema neoliberista.

Andiamo per ordine. Innanzitutto, il Giappone ha sovranità monetaria e, dunque, decide il proprio tasso di cambio. Questa è una condizione che, ad esempio, da vent’anni non possiedono più i Paesi dell’Unione Europea e che senz’altro aiuta nel combattere shock macroeconomici, soprattutto di tipo “esterno”.

Dopo il disastro della bolla speculativa causata dall’Accordo del Plaza del 1985, che scatenò la bolla speculativa giapponese e, dal 1991 in poi, circa 25 anni di recessione, i giapponesi stanno bene attenti a mantenere un crawling peg sullo yen, ovvero un regime di ancoraggio morbido. In breve, questo approccio permette ai governi di svalutare o rivalutare la propria moneta in base alle necessità del momento.

Nel 1991, prima che la bolla scoppiasse, il prezzo di un dollaro era di circa 130 JPY (dieci anni prima, quando l’economia giapponese correva, era il doppio, ergo lo yen era fortemente svalutato per poter favorire l’export). Tra il 1991 e il 2011 (in un periodo che molti chiamano “i due decenni Persi”), il Giappone seguì alla lettera le indicazioni degli Stati Uniti, affidandosi molto più di prima al laissez-fairismo di mercato per sistemare la propria economia. Questo portò il livello del yen a salire vertiginosamente fino a 70 JPY/USD, rivalutandosi e, dunque, inibendo l’export.

Quello stesso anno, dopo la sua elezione, Shinzo Abe fece partire la crociata delle Abenomics, che diede nuova linfa al Giappone, riportando piano piano lo yen al livello di oggi: 150 JPY/USD. Tutto questo non fu lasciato alla mercé del mercato, così come avviene ad esempio in Europa, ma fu frutto di una precisa volontà politica.

Il grosso problema della lenta ripresa giapponese, che grazie a questo nuovo approccio neo-keynesiano era finalmente ripartita tra il 2012 e il 2018, prima di fermarsi nuovamente per colpa della pandemia, fu che lo Stato non investì direttamente nell’industria, ma lo fece solo indirettamente, sia attraverso la politica monetaria, impostando un tasso favorevole all’export e provando la via (poi dimostratasi fallimentare sia in Giappone che in Europa) del quantitative easing, sia attraverso tassi di interesse vicini allo zero, che avrebbero dovuto incentivare le imprese insolventi ad indebitarsi (a tassi appunto super convenienti) con le banche private.

Pur di non indebitarsi, le imprese preferirono pagare le insolvenze con i risparmi (ovvero gli utili che avevano accumulato), e così oggi, a differenza di 40 anni fa (quando sulla lista c’erano anche Sony, Panasonic, Sharp, Hitachi, Toshiba, Fuji, Honda e Yamaha), l’unica impresa giapponese tra le prime 50 al mondo per capitalizzazione è la Toyota, mentre il PIL giapponese striscia sui 5.000 miliardi senza mai salire significativamente da circa vent’anni. 

Se lo Stato giapponese avesse investito direttamente a supporto dell’industria, attraverso, ad esempio, nazionalizzazioni (anche parziali) o garantendo prestiti a fondo perduto, in pratica seguendo la strategia cinese, il Giappone sarebbe rivolato e staremmo parlando di un secondo miracolo economico.

Detto ciò, è pur vero che l’economia giapponese, seppur stagnante, non è crollata vertiginosamente come crollò quella statunitense nel 1929, nonostante i presupposti ci fossero. Ciò si deve all’azione monetaria della Nichigin (la banca centrale giapponese, anche nota come BoJ), che pompò l’economia di liquidità per sostenere i consumi, sempre più bassi di anno in anno, anche per via della propensione al risparmio del popolo giapponese.

Senza questa azione, è verosimile che ci sarebbero stati effetti devastanti e la deflazione (già iper-aggressiva) si sarebbe mangiata un pezzo significativo di economia, come è accaduto, ad esempio, in molti Stati europei, Italia in primis.

Per continuare il discorso, è fondamentale sapere che il parlamento giapponese ha approvato una riforma della Nichigin già nel 1997 (in piena recessione), che imponeva a quest’ultima un maggior grado di collaborazione col governo nello stabilire la politica monetaria del Paese. La Nichigin, infatti, ha da sempre goduto di amplissima autonomia. Questa autonomia la portò ad attuare misure monetarie che effettivamente causarono la bolla speculativa di fine anni ‘80, avallando prestiti privati a bassi tassi di interesse e andando contro le direttive governative. La bolla scoppiò di fatto quando, cercando di contenere la speculazione, i tassi di interesse salirono di punto in bianco, rendendo insolventi aziende e privati, portando al fallimento centinaia di banche e causando il crollo del Nikkei nel 1991-92.

Nei decenni successivi, Shinzo Abe e il suo governo si lamentarono svariate volte della vasta autonomia manifestata dalla Nichigin (nonostante la nuova legge) e spesso hanno denunciato pubblicamente l’ente per la scarsa propensione a stimolare la domanda.

Tutto ciò va a pre-configurare un quadro che risponde solo in parte al quesito iniziale sull’inflazione in Giappone, rimasta a livelli gestibili negli ultimi mesi, in contrasto con quella dei restanti Paesi occidentali, sia appunto per la trascinante recessione deflattiva in atto da trent’anni, sia per motivi più prettamente geopolitici.

Il Giappone, infatti, come il resto dell’Occidente, ha imposto sanzioni contro la Russia, ma le sue imprese energetiche continuano ad importare gas metano liquefatto dalla Russia agli stessi prezzi del 2004 quando fu stipulato il primo contratto per il progetto Sakhalin II. Parliamo di circa 13 USD/mmBtu, mentre il prezzo spot sul mercato per il GNL ha toccato in questo ultimo periodo anche i 60 USD/mmBtu in Europa e i 40 USD/mmBtu in Asia.

Veduta aerea dell’impianto di perforazione terrestre Yastreb (Hawk) nel campo Chaiyo di Sakhalin-1 (Foto: Telegraph India)

Alla luce di ciò, a fine agosto la Chubu Electric (ora JERA), il cui contratto con Sakhalin scadeva appunto in tale data, ha stipulato un nuovo contratto alle stesse condizioni. A inizio ottobre, dietro forti raccomandazioni da parte del governo, Mitsui e Mitsubishi hanno deciso di mantenere le proprie quote nel progetto Sakhalin II (dopo che la Russia, che detiene il 51% delle quote, ha riformato la società affidandola alla statale Gazprom). Le due aziende giapponesi hanno, rispettivamente, il 12,5% e il 10% delle quote della società e si assicurano così un asset di strategica importanza per il fabbisogno energetico del Paese nipponico.

A questo proposito, prima del disastro di Fukushima del 2011, oltre ad avvalersi del gas russo a basso prezzo, il Giappone generava circa un terzo del proprio fabbisogno energetico grazie al nucleare. Un altro terzo tutt’oggi lo genera grazie alle centrali a carbone, di cui il Giappone è il terzo importatore mondiale.

Oggi il nucleare ammonta a solo il 6% del fabbisogno, ma dal 2015 il Giappone ha riaperto dieci reattori, ne sta costruendo altri due e dovrebbe riaprirne altri 15 dei restanti 30 ancora operabili entro il 2023. È verosimile che l’apporto del nucleare, nonostante l’opposizione di una larga fetta di giapponesi, sia mirato a crescere fino ad almeno il 30-40% del fabbisogno energetico nei prossimi anni. Questo aumenterà l’autonomia energetica giapponese e, soprattutto, garantirà al Paese energia a basso costo, oggi per di più reperita appunto tramite il flusso mai interrotto del GNL russo (37% del fabbisogno).

In un’economia occidentale capitalista volta alla deflazione (che perdura da 20 anni in Europa, santificata dalla BCE) e con tassi di interesse vicini allo zero, l’inflazione che viviamo oggi non dipende da un reale aumento del potere d’acquisto, ma è stata generata lato offerta. Allettati da facili profitti, operatori di mercato, banche e multinazionali, prefigurando la chiusura dei rubinetti del gas da parte dei russi e la compiacenza delle banche centrali, con una politica monetaria lasciata completamente ai mercati, hanno scorto un’occasione troppo ghiotta per non essere sfruttata.

Aumentare i tassi di interesse (rendendo, quindi, il credito meno accessibile e limitando la quantità di denaro in circolazione, come se il problema fosse dovuto a un aumento sproporzionato dei salari) per contrastare questo tipo di inflazione è una politica semplicemente miope. Forse in Giappone, a differenza nostra e dopo anni passati a combattere l’opposto, lo hanno finalmente capito.

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