STANDARD DELLA “CRITTOGRAFIA SOCIALISTA” E ALTRI MITI DELLA CYBERPOLITICA

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L’ideologia politica dei soggetti dell’emergente impero dei dati è irrilevante. Sia che il tuo feed twitter preferisca il marxismo al liberalismo; sia che tu voglia che presenti l’uccellino blu o un marchio generico, l’infrastruttura digitale sottostante rimane la stessa e porta nello stesso posto. L’ISP di Yale e altre organizzazioni simili stanno lavorando all’adattamento del messaggio per modellare “il modo in cui dovremmo comprendere gli effetti della nuova tecnologia sul discorso pubblico, sulla legge e sulla società” al fine di facilitarne la continua implementazione.

[articolo originale: Marxs Socialist Encryption Standard and Other Myths of Cyberpolitics di Raul Diego, pubblicato su siliconicarus.org]

La Yale Law School definisce il proprio Information Society Project (ISP) come “una comunità interdisciplinare di studiosi che investigano questioni al crocevia fra ambito giuridico, tecnologico e sociale”. Fin dalla fondazione – avvenuta nel 1997 ad opera dello studioso di diritto ed ex cancelliere del tribunale distrettuale degli Stati Uniti Jack M. Balkin – gli allievi dell’ISP sono stati avviati a diventare “professionisti legali, attivisti, imprenditori e responsabili politici”, concentrati particolarmente su questioni come le libertà civili, l’uguaglianza di genere e altri temi che hanno a che fare con l’inclusione tecnologica.
Nel corso degli anni Google e IBM, insieme alla Rockefeller Foundation, alla MacArthur Foundation e all’Open Society Institute, hanno sponsorizzato gli eventi e gli workshop dell’organizzazione accademica, che arrivano anche oltre il centinaio all’anno. Inoltre, l’ISP ospita molteplici iniziative separate “con obiettivi educativi e di advocacy complementari”, tra cui il Media Freedom and Information Access, organizzazione studentesca a fini di pubblico interesse che si concentra su tematiche relative alla responsabilità del governo, all’accesso costituzionale, alla sicurezza nazionale, ai dati aperti e ai diritti di raccolta delle notizie.

Tra i suoi docenti più importanti ci sono stati stati studiosi influenti come Yochai Benkler, dal cui lavoro seminale – The Wealth of Networks: How social production transforms markets and freedom – provengono molte “innovazioni sociali” associate ai beni comuni digitali, compreso il concetto di Networked Information Economy (NIE) o di “relazione sociale non di mercato” peer-based, che lo studioso distingue dalla cosiddetta “economia dell’informazione industriale” centralizzata, composta da radio, televisione e giornali.

Nel suo libro Benkler studia le informazioni in quanto beni e modelli economici decentralizzati, introducendo l’idea di “individui in rete” che “governerebbero le proprie interazioni e i ruoli di microcomunità sia nello spazio reale che in quello virtuale”. Pubblicato nel 2006, The Wealth of Networks è stato salutato da Lawrence Lessig, il fondatore della Creative Commons, come “il libro più importante e potente che sia stato scritto nell’ultimo decennio sui temi per me più rilevanti”.

Ex soldato delle Forze di Difesa Israeliane (IDF), Benkler ha iniziato la sua carriera accademica presso la New York University, per poi proseguire ad Harvard e infine approdare a Yale come professore di legge. Descritto come un “lanciasassi radicale”, egli ha avuto modo di presentare il suo libro presso il Center for American Progress (CAP), il think tank di politica pubblica fondato da John Podesta. In quell’occasione ha avanzato l’idea che “creatività, esperienza e conoscenza umana” siano componenti “non fungibili” della fiorente economia dei dati […]

1/29/2020 – Yochai Benkler delivers keynote address at the ACM Conference on Fairness, Accountability, and Transparency (ACM FAccT) in Berkman Klein Center for Internet & Society

In sostanza, le astrazioni di Benkler si riducono alle conseguenze economiche di due fatti: da un lato l’avere un enorme tesoro di dati generati dagli utenti (e-mail, condivisione di file, blog, ecc.) che vengono immessi nell’economia via Internet, e dall’altro l’inapplicabilità delle forme tradizionali di controllo, come i diritti di proprietà intellettuale, su questi input. Piuttosto che cercare di mantenere la quota di mercato limitando la proprietà dei dati, Benkler propone una separazione dello “strato fisico” (cioè l’infrastruttura ICT) dalla “produzione sociale” (che può includere qualsiasi cosa, da una GIF animata a un programma software open source). Il problema infatti, come lo stesso Benkler ha affermato durante quel discorso, è che “la società, i mercati, la tecnologia stanno spingendo verso una determinata direzione, [mentre] la legislazione, i tribunali, l’amministrazione spingono dalla parte opposta”. La soluzione proposta è stata allora promuovere il “valore delle tecniche non proprietarie” di fronte “agli ostacoli che stanno spingendo per ottenere i più forti vincoli possibili sull’innovazione distribuita”.

Secondo Benkler, l’emergere della “condivisione sociale e dello scambio […] come principale modalità di produzione economica” accrescerebbe l’intraprendenza individuale, e perciò i governi dovrebbero rimodulare l’approccio legislativo finora avuto rispetto alla tecnologia dell’informazione. Anche se, in realtà, non sono mai state fatte misurazioni significative su quanto questa “intraprendenza individuale” sia avvantaggiata dalla capacità di condividere liberamente un pensiero, una poesia o un’immagine online, né l’eventuale beneficio economico per gli individui stessi.

Quando Benkler tenne questa breve conferenza, nel 2006, l’iPhone non esisteva ancora, Twitter era a due mesi dal lancio e Facebook stava ancora cercando di convincere la gente di non essere solo un MySpace 2.0. Forse soltanto YouTube, avviato l’anno prima da un gruppo di dipendenti PayPal, poteva essere considerato un punto di svolta in questo senso, nonostante gravi ritardi di buffering. Nondimeno, tutta la narrazione sull’intraprendenza individuale già costruiva la base per le grandiose argomentazioni di Benkler – condivise dall’ISP di Yale – sulla promozione di “libertà e democrazia” attraverso queste nuove modalità economiche e “innovazioni sociali”, che alla fine convergono in quelli che chiamiamo mercati dell’impatto sociale.

Uno degli esempi di innovazione sociale portati da Benkler nel suo discorso al Center for American Progress era un progetto realizzato presso l’Università di Città del Capo, in Sud Africa, nel 2002: un progetto “simile a Wikipedia” che aveva cercato di raccogliere informazioni per creare libri di testo gratuiti di scienze e matematica per le scuole superiori. Questa iniziativa EdTech, abbastanza rudimentale e nota come Free High School Science Texts (FHSST) era stata promossa dall’organizzazione no-profit della Silicon Valley Institute for the Study of Knowledge Management in Education (ISKME), finalizzata alla ricerca e allo sviluppo di “strumenti di condivisione della conoscenza aperti e distribuiti” da ottenersi sfruttando “contributi all’avanguardia nel campo dell’istruzione, con un team interdisciplinare di scienziati sociali”. Lo stesso progetto era stato caso di studio in un più ampio “sforzo di ricerca multi-stakeholder” da parte di ISKME, incentrato sulle implicazioni degli strumenti e delle dinamiche dell’Open Education Resource (OER), nel tentativo di definire standard per “contenuti educativi aperti prodotti da pari”. Altri sei programmi pilota di ricerca erano stati condotti contemporaneamente in Uganda, in due città indiane, a Boston e alla Stanford University in California.

Quasi un decennio dopo l’esperimento, il governo del Sudafrica avrebbe lanciato l’Operazione Phakisa, un piano di sviluppo nazionale multisettoriale che includeva l’Operazione Phakisa Education (OPE) per la trasformazione dell’istruzione di base in coerenza col Libro Bianco del 2004 sull’e-Education: trasformare l’insegnamento e l’apprendimento attraverso le tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC).

L’Operazione Phakisa Education è stata oggetto di intense critiche da parte di Michael Kwet, borsista presso lo Yale Information Society Project e dottore in sociologia presso la sudafricana Rhodes University. Oltre ad essere ospite nel podcast Tech Empire (trasmesso dalla Yale University), Kwet è un collaboratore di The Intercept di Pierre Omidyar e i suoi interventi sono apparsi su New York Times, Vice News, Al Jazeera, Wired e molti altri media, dove le sue posizioni anti-Big Tech sono sempre state chiare ed evidenti.

Le sue obiezioni all’Operazione Phakisa Education, in particolare, si concentrano su questioni come la privacy e il ruolo dell’impresa privata nello spazio educativo. Avvalendosi di contatti personali all’interno dei circoli accademici sudafricani, Kwet è stato in grado di accedere ai dettagli del piano – altrimenti riservati – per “trasformare il settore dell’istruzione di base in un sistema basato sui dati che trasformerà l’insegnamento, l’apprendimento e la gestione”. In uno studio del 2020 ha esaminato l’approccio all’istruzione basato sui dati e tracciato il profilo sia della società con cui il governo del Sudafrica ha stipulato un contratto per fornire servizi EdTech, sia della Dashboard Data Driven Districts (DDD) e della Michael & Susan Dell Foundation (MSDF), utilizzata come strumento di amministrazione per le scuole. Ha citato inoltre numerosi esempi storici di come la sorveglianza da parte di società private (IBM ad esempio) e di servizi di intelligence americani sia stata utilizzata per aiutare il governo repressivo dell’apartheid sudafricano, e ha sostenuto che l’attuazione dell’open education resource sia finalizzata a ciò che resta – per usare le sue parole – l’obiettivo degli “Stati Uniti e dei loro alleati [ossia] portare quasi tutte le comunicazioni elettroniche sotto la loro vasta rete di sorveglianza globale”. Così, usando espressioni come “colonialismo tecnologico”, Kwet si appella a quanti riconoscono gli abusi del capitalismo e comprendono le rimostranze politiche di nazioni come il Sudafrica, o altre nel Sud del mondo, storicamente sottoposte alla sottomissione economica da parte dell’Occidente.

Eppure le soluzioni che propone dimostrano quanto lui stesso sia prigioniero del quadro ideologico che perpetua questo sistema di dominio. In alternativa a Microsoft, Google e tutte le altre imprese Big Tech in lizza per un pezzo della torta della e-school sudafricana, infatti, Kwet propone “tecnologie che rispettano la libertà degli utenti e della comunità”. Rimanendo direttamente nel campo politico, ad esempio, sostiene un sistema di comunicazione crittografato sviluppato dai ribelli sudafricani durante l’Operazione Vula nella loro lotta contro il governo dell’apartheid nel 1980 come esempio di resistenza contro l’invasione delle corporazioni private occidentali nel loro sistema educativo. Sostenendo che “la crittografia ha svolto un ruolo fondamentale nella tarda lotta dell’ANC contro lo stato di apartheid”, Kwet suggerisce anche che:

“Ci sono molti strumenti software disponibili per la protezione della privacy. Se il codice sorgente è aperto per l’ispezione e la modifica da parte del pubblico, può essere valutato da esperti pubblici per difetti di sicurezza o funzionalità dannose. Per questo motivo, molti sostenitori della privacy approvano il software libero e open source (FOSS) per la sicurezza informatica (ad esempio, Schneier, 1999; Snowden, 2016). Il governo sudafricano ha una preferenza politica FOSS per l’uso nel settore pubblico. In base a questa politica, il software proprietario dovrebbe essere utilizzato solo se è dimostrato che è superiore alle alternative FOSS. La politica sostiene che FOSS è la migliore pratica per la sicurezza. A questo proposito, FOSS dovrebbe essere affrontato dai responsabili politici per l’uso in classe, nell’interesse della privacy e della sicurezza”.

Il consiglio di Kwet si riduce quindi a un “costruisci la tua app”, come spesso dicono i guerrieri da tastiera sui social media, quando esprimono insoddisfazione per i termini di servizio di una particolare rete. In effetti, il Dr. Kwet ha recentemente proposto di “rovesciare il capitalismo digitale e il colonialismo” attraverso The Digital Tech Deal: un quadro socialista per il 21 ° secolo, una sorta di piano in dieci punti che contestualizza “tutta l’analisi digitale, la politica e l’attivismo […] in un quadro di eco-socialismo e decrescita decoloniale”. Si tratta di un testo probabilmente troppo estremo per poter entrare nel catalogo ufficiale delle pubblicazioni ISP di Yale, ma l’inquadratura che offre è comunque pienamente in linea con la tendenza generale dei white paper di quell’organizzazione: una moderna raccolta apologetica costellata di mea culpa e “soluzioni” ai dilemmi etici e morali posti dalle tecnologie, che sono tuttavia considerate una caratteristica inevitabile del nostro futuro.

Nell’introduzione, Kwet descrive la sua proposta come “un Digital Tech Deal ecosocialista che interseca i valori dell’antimperialismo, della sostenibilità ambientale, della giustizia sociale per le comunità emarginate, dell’empowerment dei lavoratori, del controllo democratico e dell’abolizione della classe”. Tra i suoi dieci punti troviamo esortazioni a collocare l’economia digitale “all’interno di confini sociali e planetari”; la socializzazione dello “strato fisico” di cui parla Benkler, che sarebbe “mantenuto da un consorzio internazionale che lo costruisce e lo mantiene economicamente per il bene pubblico piuttosto che per il profitto”, e concetti simili.

In nessun momento, però, viene messa in discussione la necessità o la desiderabilità di un’economia dei dati. Come nella maggior parte, se non in tutto il materiale che proviene dalla facoltà ISP di Yale, qualsiasi questione relativa all’identità digitale, all’intelligenza artificiale e alla privacy dei dati viene affrontata attraverso una lente in cui l’involucro cibernetico è un fatto ormai compiuto. Invece di interrogarsi sull’utilità dei social media, della raccolta dei dati o persino della sorveglianza, Kwet raccomanda di socializzare questi elementi del recinto digitale.

A partire dal 2020, ISP ha iniziato a pubblicare una serie chiamata Digital Future Whitepapers “per proporre nuovi modi di allineare i quadri legale ed etico ai problemi del mondo digitale”. In uno di questi paper, intitolato Nowhere to Hide: Data, Cyberspace, and the Dangers of the Digital World, l’autore, [Andrew Burth], si lamenta – esattamente come Kwet – della massa di casi in cui è evidente la nostra esposizione a questi sistemi, ma riserva il suo ottimismo per la terra promessa dell’economia dei dati, ossia il settore sanitario:

“Per essere chiari, queste novità non sono sempre cattive. Anche se potrei aver dato quest’impressione concentrandomi sugli aspetti negativi, in realtà non vedo tutti questi sviluppi come del tutto negativi. Nello spazio sanitario, ad esempio, molte di queste tendenze porteranno sicuramente a nuove intuizioni, forse diagnosi migliori, servizi medici più facilmente accessibili e persino vite salvate. C’è un mondo di correlazioni sconosciute nascoste all’interno di tutti i nostri dati di cui sono sinceramente entusiasta”.

L’assistenza sanitaria è infatti il settore in cui tutto si interseca e dove, se lo permettiamo, l’economia dei dati stabilirà la sua ancora inamovibile. Anche Benkler lo ha capito, motivo per cui sedici anni fa, al Center for American Progress, aveva riservato al progetto genomico il posto d’onore fra gli esempi di modello di “produzione basato su beni comuni e pari”:

“In medicina […] l’evoluzione della bionformatica è più importante del resto, come il software libero e la comunità di sviluppo di software open source. Questo è il modo in cui il genoma umano è fatto oggi. È così che oggi vengono realizzati i progetti di mappatura degli aplotipi”.

Come già detto da Silicon Icarus, il Santo Graal dell’economia dei dati si trova nel settore sanitario, dove la genomica è destinata a “guidare enormi progressi nell’assicurazione sulla vita e sulla salute [così come] nella fornitura di assistenza sanitaria alimentando una prossima generazione di modelli sanitari” e “hackerando il software della vita”, secondo il Dr. Bradley A. Perkins di The Commons Project.

L’ideologia politica dei soggetti dell’emergente impero dei dati, insomma, è fondamentalmente irrilevante. Sia che il tuo feed twitter preferisca il marxismo al liberalismo; sia che tu voglia che presenti l’uccellino blu o un marchio generico, l’infrastruttura digitale sottostante rimane la stessa e porta nello stesso posto. L’ISP di Yale e altre organizzazioni simili stanno lavorando all’adattamento del messaggio per modellare “il modo in cui dovremmo comprendere gli effetti della nuova tecnologia sul discorso pubblico, sulla legge e sulla società” al fine di facilitarne la continua implementazione.

Yochai Benkler è ora professore del Berkman Entrepreneurial Legal Studies presso la Harvard Law School, dove si occupa di diritto informatico e delle comunicazioni. Nel 2018 ha pubblicato un nuovo libro intitolato Network Propaganda: Manipulation, Disinformation, and Radicalization in American Politics, che analizza il consumo dei media degli americani durante il ciclo elettorale di Donald Trump.

Ogni singolo aspetto della campagna elettorale di Trump e di gran parte della sua amministrazione è stato foraggio per scienziati sociali e analisti di dati, che sono stati in grado di raccogliere un tesoro di informazioni comportamentali attraversando l’intero spettro delle opinioni politiche, dall’indifferenza al moderatismo all’estremismo. Trump, il candidato polarizzante e poi presidente, è stato una sorta di sandbox su come progettare strategicamente quello che l’esercito americano chiama il “dominio cognitivo“. E Benkler aveva capito da ben prima – fin dal “primo esperimento” del 2002 con lo scandalo della macchina per il voto Diebold – che “la cultura, il modo in cui raccontiamo le storie”, sostituisce il sistema politico in un ambiente in cui l’informazione sia stata “democratizzata”, e che chiunque sia in grado di controllare la narrativa culturale vincerà.

Alla presentazione del suo ultimo libro presso il Center on Philanthropy and Civil Society di Stanford, Benkler ha esaminato un caso di studio, discusso nel libro stesso, intitolato The Propaganda Feedback Loop vs. The Reality Check Dynamic, concentrato su storie concorrenti nei media durante la campagna presidenziale del 2016 che ha preso di mira entrambi i candidati con accuse di pedofilia. Donald Trump è stato accusato di aver violentato una tredicenne, mentre Hilary Clinton è stata implicata con suo marito ed ex presidente, Bill Clinton, nel caso del “Lolita Express” di Jeffrey Epstein.

“La cosa fondamentale che stiamo cercando di stabilire qui”, ha detto Benkler, “non è come l’individuo X arrivi a credere in una falsa notizia. È come fa una falsa notizia a mettere radici a livello di popolazione nonostante la presenza di prove concorrenti nei media mainstream”. E ha proseguito spiegando come questo fenomeno sia dovuto alla cosiddetta “conferma del pregiudizio dell’identità”, alimentato dagli stessi media, che controllano la devianza dalla conferma dell’identità e, a loro volta, la proiettano sull’establishment politico per guidare i risultati elettorali.

Entrambe le cose sono possibili grazie al numero praticamente infinito di media a nostra disposizione. “L’innovazione critica”, secondo Benkler, è una funzione diretta di questa pluralità dei media, ciascuno dei quali offre necessariamente “un prodotto molto ristretto e specifico” e mantiene il proprio pubblico attraverso la costante affermazione del pregiudizio identitario mediante l’indignazione condivisa.

Più significativamente, questa è la natura del recinto cibernetico. In altre parole, è una funzionalità non un bug. Nella primavera del 2020, l’omicidio di George Floyd per mano della polizia, ha scatenato il proprio ciclo di feedback della propaganda. A differenza del caso di studio analizzato da Benkler, il pendolo oscillava pesantemente a sinistra e gli appelli a “definanziare la polizia” sono stati riprodotti sulla maggior parte delle vetrine di quei mezzi di persuasione, sostenuti dalle dichiarazioni delle stesse grandi aziende tecnologiche che promettevano di non vendere alla polizia la propria tecnologia di riconoscimento facciale.

Il punto numero nove del Digital Tech Deal socialista di Michael Kwet chiede la sostituzione di “militari, polizia, carceri e apparati di sicurezza nazionale con servizi di sicurezza e protezione guidati dalla comunità”, sostenendo che la tecnologia digitale nelle mani delle istituzioni rappresenta una minaccia per la società in generale e che, al contrario, “applicazioni socialmente vantaggiose” dell’intelligenza artificiale dovrebbero essere implementate anche se con un “approccio conservatore”. L’ultimo punto, poi, completa la farsa, facendo vibrare le corde del nostro cuore con l’evocazione dei “poveri globali” rimasti dall’altra parte di un immaginario “divario digitale” che Kwet intende colmare attraverso “un processo di riparazione” e redistribuzione della ricchezza. Non si propone, per esempio, di riportare le persone nella terra da cui potrebbero essere state deportate per gli interessi minerari transnazionali di chi estrae le materie necessarie per fabbricare il vasto inventario di prodotti ICT, ma semmai pensa a “sovvenzionare i dispositivi personali e la connettività Internet” e “fornire infrastrutture, come cloud o strutture di ricerca ad alta tecnologia, a popolazioni che non possono permettersele”, in modo che anche loro possano partecipare ai cicli di feedback della propaganda degenerata e manipolativa che ora guida la nostra ignorantissima società dell’informazione.

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