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Secondo quanto riferisce un membro della nostra redazione, che ha effettuato alcune interviste sia a Tunisi che in provincia, pare che la situazione politica e di ordine pubblico nel paese maghrebino sia completamente diversa da quella riferita da alcuni autorevoli esperti di geopolitica, come Internazionale.

Il presidente Saied è il vincitore delle elezioni tenutesi nel 2021, grazie ad un programma elettorale fortemente improntato al ritorno del paese alla stabilità dei tempi del presidente Ben Alì, spodestato dalla prima delle “primavere arabe” del decennio scorso. Come accaduto in Sudan, Egitto e Libia, anche in Tunisia la “primavera” ha consegnato il paese all’instabilità interna ed internazionale legata al potere di organizzazioni vicine alle monarchie assolute del Golfo Persico.

Per raggiungere l’obiettivo, Saied ha proceduto a sciogliere d’autorità il parlamento, promettendo nuove elezioni politiche non appena il panorama politico sarà sterilizzato della presenza di organizzazioni politiche islamiste.

Da Tunisi, centro politico del paese, a Sousse vera e propria capitale economica della manifattura tunisina, grazie a forti investimenti italiani (abbigliamento, calzature, materiali edili su tutto), la situazione appare calma, non vi sono rivolte per il pane o per la penuria di carburante, grazie anche al fatto che il governo ha appena confermato il prezzo calmierato del pane e della benzina, rispettivamente a 30 cent al kg e 75 cent al litro e nei supermercati, l’olio di semi e lo zucchero non sono contingentati (come accade, in verità, in Italia).

Piuttosto, ci sentiamo di fornire una lettura diversa da quella catastrofista de l’Internazionale: dopo l’avvento di Al-Sisi in Egitto e la permanenza al potere del presidente del Sudan, anche in Tunisia il popolo ha chiesto ed ottenuto, con elezioni tenutesi regolarmente, un ritorno al modello autocratico precedente a quello delle Primavere arabe del 2011, quando gli USA, sostenuti da Francia e Regno Unito (ex potenze coloniali spodestate dall’Italia fin dagli anni sessanta) hanno voluto “esportare democrazia”, portando, in realtà, insoddisfazione e instabilità.

Se tutto il Nord Africa, da Suez fin quasi a Gibilterra, rifiuta la democrazia portata dai rappresentanti dell’angolosfera e dall’ex potenza coloniale francese, indirettamente ribadendo la propria volontà di indipendenza anche finanziaria (Libia, Egitto e Sudan erano i promotori della Banca africana per gli investimenti, con sede già fissata in Camerun, per lo sviluppo del continente senza il supporto del FMI e, a causa di ciò, destinatari di un’azione militare di regime change da parte di USA, UK e Francia nel 2011), forse la leadership USA dovrebbe iniziare a chiedersi se non si stia aprendo anche un fronte geopolitico a sud dell’Europa, altrettanto pericoloso in quanto Egitto, Libia e Algeria sono paesi ricchi di idrocarburi, divenuti così preziosi dopo le sanzioni dell’occidente verso la Russia.

Non è, quindi, quest’ultima ad allargare la propria sfera di influenza in Africa, ma sembrano essere proprio i popoli di quell’area a preferire il governo di un uomo forte, che li conduca fuori dal decennio scorso, da quello che appare essere stato più un incubo che una primavera per i popoli arabi. Popoli legati all’Italia da decenni grazie alla visione strategica di statisti come Mattei, Moro e Craxi, secondo cui la priorità nazionale deve essere la stabilità della regione mediterranea.

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