Porre l’Uomo al servizio dell’economia e della finanza – e non la finanza e l’economia al servizio dell’Uomo – ha provocato la crescita incontrollata del debito degli Stati fra Stati, e indebitato gli individui che compongono gli Stati sui quali, in varie forme, ricade il peso economico di scelte sconsiderate che ne hanno peggiorato la qualità della vita. Quando non si riesce a reperire reddito a sufficienza per acquistare i beni necessari per condurre una vita dignitosa, e per assolvere all’obbligo tributario al fine di usufruire dei servizi resi dallo Stato, ecco che si è costretti a ricorrere al prestito, da privati o da istituti di credito. 

Nell’ambito del diritto internazionale è ben conosciuto il concetto di debito “odioso”, e il carattere non vincolante dell’obbligo assunto, con particolare riferimento alla successione di Stati, ovvero con riferimento alle varie trasformazioni che, nel corso della storia, hanno visto scomparire monarchie ed imperi, fino alla formazione degli Stati moderni. Tra il 1924 ed il 1927 la teorizzazione formale della dottrina del debito c.d. odioso avvenne ad opera del giurista Alexander Nahum Sack, professore di diritto russo specializzato in diritto finanziario internazionale, secondo il quale i debiti “odiosi” erano i debiti contratti e utilizzati contro il popolo dello Stato, senza il suo consenso (del popolo) con la piena consapevolezza del creditore. 

Scrive Sack: «Il debito non è un obbligo per la nazione; è un debito di regime, un debito “personale” del potere che lo ha sostenuto, di conseguenza rientra in questo potere… Il motivo per cui questi debiti “odiosi” non possono essere considerati gravanti per il territorio dello Stato è che tali debiti non soddisfano una delle condizioni che determinano la legalità dei debiti dello Stato, cioè: i debiti dello Stato devono essere contratti e i fondi da esso impiegati per i bisogni e nell’interesse dello Stato. Debiti “odiosi”, contratti e utilizzati per fini che siano conosciuti dai creditori contrari agli interessi della nazione, non obbligano quest’ultima – nel caso in cui la nazione riesca a liberarsi del governo che li ha assunti – tranne nei limiti in cui (la nazione) ne ha tratto reale vantaggio». [1]

Questo paradigma è stato unanimemente riconosciuto ed applicato in varie occasioni dal 1800 in poi fino agli esoneri post-bellici dell’ultima guerra mondiale convenzionale. Ma in tempo di stabilità statale, con riferimento al succedersi della composizione politica dei governi o in ipotesi di formazioni di governo derivanti dai frequenti “rimpasti”, per sottrarre i cittadini dalle scelte compiute da un governo “usurpatore”, non eletto e imposto al popolo, può applicarsi tale teoria?

E il singolo cittadino, oppresso da uno Stato fiscale sempre più pervasivo la cui pretesa impositiva, nella duplice modalità di tassazione diretta ed indiretta, tocca la soglia del 65% del reddito individuale, con un ricorso sempre più diffuso al prestito privato e pubblico, e con la mortificazione del diritto – pur costituzionalmente riconosciuto – al lavoro ( Art. 4 Cost.) e di quello ad una retribuzione in ogni caso «sufficiente ad assicurare a sé ed alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa» (Art. 36 Cost.), a quali strumenti di protesta può far ricorso per vedere ripristinati i propri diritti?

Il concetto di rinnegabilità o inesigibilità del debito odioso è strettamente correlato al diritto di resistenza (concetto fondamentale della filosofia del diritto), cioè al diritto dell’individuo di ribellarsi nei confronti del governo, in qualunque forma rappresentato, che venga percepito come ingiusto. In quest’ottica le condizioni di indebitamento degli Stati e quelle dei singoli possono considerarsi sovrapponibili quanto agli strumenti leciti disponibili per uscire dal giogo dell’oppressore.

Per S. Tommaso d’Aquino [1221-1274] la fonte suprema di ogni autorità è l’autorità di Dio in quanto creatore e governatore dell’Universo. Il sovrano/governo, quindi, deriva la sua autorità da Dio ed incontra il limite dell’agire per il “bene comune”. Il sovrano che agisca in danno del popolo diviene tiranno, ed il popolo che si veda oppresso da leggi ingiuste emesse in suo danno ha il diritto di ribellarsi al tiranno.[2]

John Locke [1632-1704], la cui teoria politica è fondata sui diritti irrinunciabili dell’individuo, sui diritti naturali, fonda il diritto di resistenza su basi contrattualistiche tra governanti e popolo, sul contratto o patto sociale. Se i governanti violano i diritti naturali si ha una lesione del patto sociale e diviene legittimo il diritto del popolo di resistere al sovrano disattendendo le leggi ingiuste. Egli, nel Due Trattati sul Governo pubblicato nel 1689, enunciò la teoria della legittimità della resistenza al tiranno, il diritto di resistenza del popolo nei confronti del governo ingiusto e/o usurpatore.[3]

Nel XIX° secolo tali teorie furono riprese da H.D. Thoreau [1817-1862] il quale, in un saggio pubblicato nel 1849, considera la disobbedienza civile una forma di lotta politica che si verifica quando una o più persone violano pubblicamente una norma ritenuta particolarmente ingiusta, in modo da rendere pubbliche, ed evidenti a tutti, le sanzioni previste dalla legge stessa.[4]

In tempi più vicini a noi Passerin d’Entreves [1902-1985], filosofo del diritto, invita a riflettere sui limiti del patto sociale instaurato tra governo e popolo. Il patto sociale su cui si fonda l’idea moderna di Stato democratico si basa sull’obbedienza alle leggi ma, avverte, proprio dall’obbedienza acritica all’autorità statale sono nati i regimi totalitari. Nel saggio pubblicato nel 1970, premesso il dovere di rispettare la legge, ritiene che l’obbedienza alla legge e la sottomissione delle minoranze al volere della maggioranza siano il sacrificio necessario per beneficiare dei vantaggi della democrazia. Giunge però, sulla scia di Thoreau, a riconoscere accanto all’obbedienza alle leggi, anche ingiuste, la liceità di una forma di resistenza passiva, unica forma di resistenza consentita in una società libera perché concilia la fedeltà ai principi con il rispetto della legge, che sono i pilastri sui quali la società si regge. Ritiene quindi «eroica la sofferenza patita in obbedienza alla legge ingiusta per contribuire, con tale pena, all’avvento di una legge migliore e di una società più libera».[5]

Affinchè la resistenza sia lecita, la legge deve essere 1) Ingiusta (contraria a principi di giustizia), 2) Illegittima (emanata da chi non ha il potere di emanarla) e 3) Invalida (contraria alla Costituzione vigente).

L’azione di resistenza può essere di vario tipo: omissiva o commissiva, individuale o collettiva, clandestina o pubblica, pacifica o violenta, contro una norma o contro tutto l’ordinamento, passiva (si accetta la pena) o attiva (ci si sottrae alla pena)

Il diritto alla resistenza secondo alcuni non può essere costituzionalizzato; secondo altri, invece, esisterebbe un vero e proprio diritto/dovere di resistenza e, in quanto tale, dovrebbe essere previsto dalla Costituzione.

In alcuni ordinamenti giuridici il diritto di resistenza è stato esplicitamente previsto in altri è implicito.

Il diritto-dovere di resistenza è espressamente riconosciuto, ad esempio, nella Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti d’America del 4 luglio 1776, che recita: «Noi riteniamo che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che il Creatore ha fatto loro dono di determinati inalienabili diritti… che ogni qualvolta una determinata forma di governo giunga a negare tali fini, sia diritto del popolo il modificarla o l’abolirla, istituendo un nuovo governo che ponga le basi su questi principi…. Allorchè una lunga serie di abusi e di torti…tradisce il disegno di ridurre l’umanità ad uno stato di completa sottomissione, diviene allora suo dovere, oltre che suo diritto, rovesciare un tale governo…».[6]

Ancora, il diritto-dovere di resistenza all’oppressore è legittimato dalla Rivoluzione Francese. La Dichiarazione dei Diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 afferma all’art. 2: «Lo scopo di ogni società è la conservazione dei diritti naturali ed imprescrittibili dell’uomo. Questi diritti sono la libertà e la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione». [7] In epoca successiva alla Rivoluzione Francese, tuttavia, superati i moti rivoluzionari che avevano portato alle modifiche politiche nell’Europa continentale, nei nuovi ordinamenti, forse perché formati da uomini che le ribellioni le avevano teorizzate e ben le conoscevano, la resistenza venne legittimata nei limiti del rispetto della Costituzione vigente, perdendo il valore sostanziale e formale fino ad allora mantenuto.

Fu alla fine della seconda guerra mondiale, dopo la scoperta dei crimini di guerra di stampo nazista, che si ripropose il tema dei limiti entro i quali ritenere possibile emendare azioni commesse in tempo di guerra quando dichiaratamente dirette al ripristino della legalità, e di un governo giusto, mediante l’eliminazione dell’oppressore. In conseguenza del rinnovato ed attuale interesse sull’argomento, varie Costituzioni europee del dopoguerra riconobbero espressamente il concetto giuridico di resistenza ed il diritto-dovere di resistere.

Per quanto riguarda l’Italia, il Progetto di Costituzione del 1947 accolse il principio di resistenza che però non superò le varie opposizioni e venne stralciato dalla stesura della Carta Costituzionale poi approvata.

Giorgio Giannini, nel suo saggio Il diritto di resistenza nella Costituzione Italiana, ritiene però che il diritto di resistenza trovi la sua legittimazione nel principio di Sovranità Popolare sancito nell’art. 1 della Carta Costituzionale: «La sovranità – dice – è esercitata direttamente attraverso l’esercizio dei diritti di libertà espressamente garantiti dalla Costituzione e, in modo indiretto, attraverso la Pubblica Amministrazione, Stato-apparato, la cui attività non può mai porsi in contrasto con la sovranità popolare». Ecco allora che se il Governo, pur «instaurato legalmente (con le elezioni) agisce oltre i limiti della propria legittimazione (che deriva dalla sovranità popolare espressa con le elezioni), i cittadini, che sono i titolari effettivi della sovranità, possono e devono attivarsi (con la resistenza) per il ripristino della legalità violata».

Se ai cittadini fosse vietato di ricorrere alla resistenza, quale rimedio per ripristinare la legalità violata, il principio di sovranità popolare sarebbe privo di significato: «Il dovere di fedeltà alla Costituzione (art. 54 Cost.) comporta l’obbligo di non obbedire alle leggi che si pongano in contrasto con essa, il diritto-dovere di resistenza in forma individuale o collettiva ed anche attiva, purchè non violenta».[8]

In conclusione il diritto di resistenza, il dovere di opporsi alle leggi ingiuste e contrarie ai principi fondamentali dell’Ordinamento dello Stato di appartenenza, è riconosciuto perché è esso stesso espressione della sovranità che permane saldamente in capo al popolo. Non resta che farne buon uso.

Debora Mura

Note

[1] Gli effetti della trasformazione dello Stato sui Debiti Pubblici e su altre Obbligazioni Finanziarie. Sack 1927
[2] De regimine principum ad regem Cypri. S.Tommaso d’Aquino
[3] Two Treatises of Governement J. Locke
[4] Civile Disobedience H.D.Thoreau
[5] Obbedienza e resistenza. Passerin d’Entreves
[6] The United States Declaration of indipendence July 4, 1776.
[7] Declaration des droits de l’homme e du citoyen du 26 aout 1789
[8] Il diritto di resistenza nella Costituzione Italiana.

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